Stiamo assistendo all’inizio di una guerra commerciale? È difficile dirlo. Sappiamo però che, dall’inizio del 2018, gli Stati Uniti hanno ricominciato a utilizzare i dazi come strumento di difesa commerciale, in particolare contro la Cina. Si tratta invece di schermaglie per arrivare a una tregua commerciale? È più probabile che sia così. Nonostante ciò, le azioni statunitensi sono quanto mai atipiche.
Donald Trump, infatti, ha lanciato la sfida annunciando dazi su beni per un valore di circa 50 miliardi di dollari. Ignorando la prassi di imporre dazi su beni finali importati, ha stupito tutti prendendo di mira i prodotti intermedi. Infatti, i nuovi dazi americani non colpiscono prevalentemente, come spesso avviene, prodotti finali come automobili, vestiti o scarpe ma mirano a ridurre le importazioni di beni intermedi.
Effettivamente, qualcuno potrebbe valutare che la scelta dell’amministrazione Usa sia scaltra, perché colpisce il cuore della manifattura cinese, ovvero la componentistica. Ma la realtà è ben diversa: gli Usa importano circa 2.000 miliardi di dollari di beni da tutto il mondo; la metà di questi beni sono intermedi, ovvero si tratta di componenti necessari alla manifattura statunitense per produrre prodotti finali “made in Usa” da immettere sui mercati internazionali. Colpendo beni intermedi, quindi, Trump non sta solo danneggiando i produttori cinesi, ma anche l’industria americana, aumentando i suoi costi di produzione e i prezzi per i consumatori di beni prodotti dalle imprese Usa.
Proviamo ad immaginare un produttore di moto statunitense che, a causa dei dazi, vede aumentare il costo di importazione di alcuni componenti prodotti in Cina. Ovviamente, ove possibile, come prima cosa proverà a sostituire queste parti con prodotti locali, necessariamente più costosi, altrimenti si rassegnerà a pagare quel componente il 25% in seguito ai dazi recentemente introdotti. In entrambi i casi, così, il produttore pagherà di più.
Ora, moltiplichiamo questo aumento di prezzo per le centinaia di componenti che formano una moto e che sono stati colpiti dai dazi per capire quale possa essere l’impatto sul costo finale per il mercato. La conseguenza dell’aumento di prezzo per il produttore significherà una minore competitività a livello globale, che si traduce in minori vendite, ovvero la perdita di fette di mercato a scapito dei concorrenti, oltre che la diminuzione degli ordini e la conseguente riduzione del personale impiegato.
Ovviamente i nuovi dazi provano a ridurre la competizione cinese sui beni intermedi. Il risultato sarà però che, oltre a ridurre la competizione cinese, diminuiranno anche i consumatori mondiali disposti a comprare beni “made in Usa”, perché troppo costosi, e volgeranno il loro sguardo altrove, proprio verso la concorrenza.
Certo, negli ultimi anni la Cina ha sfruttato vuoti legislativi del sistema internazionale per rafforzarsi come, ad esempio, in tema di proprietà intellettuale, o con il mantenimento di stretti legami economici tra il potere politico e le grandi aziende del paese, finanziate per mantenere dei prezzi di produzione bassi. È però necessario riflettere su quali siano gli strumenti adatti per arrivare a un riequilibrio dei ruoli, evitando così che gli Usa continuino ad essere garanti impotenti e la Cina potenza emergente e indisciplinata.
Quando si parla di dazi, diverse persone sostengono che la mossa Usa sia indovinata perché, esportando gli Stati Uniti soltanto 135 miliardi di dollari di beni in Cina (contro gli oltre 550 miliardi di beni cinesi in ingresso negli Usa), potranno essere colpiti soltanto marginalmente dalle misure di Xi Jinping. Vale a dire che alla Cina, dopo aver già risposto ai dazi Usa con misure protezionistiche su 50 miliardi di beni, non restano che altri 85 miliardi da poter attaccare. Mentre dal canto loro gli Usa, “forti” delle loro importazioni dalla Cina, hanno ancora circa 500 miliardi di beni che possono bloccare. Ma funziona proprio? La realtà, ancora una volta, è ben diversa, prima di tutto perché il danno potenziale a imprese e consumatori americani è molto più alto proprio perché importano di più. Inoltre, le guerre commerciali non si giocano soltanto con i cari vecchi dazi. Oggi si giocano con tutte le barriere regolamentative.
Immaginiamo che domani un funzionario cinese entri in una fabbrica che produce iPhone e trovi irregolarità sui contratti di lavoro costringendo così lo stabilimento a chiudere per due settimane. Immaginiamo poi che alle società di investimento Usa venga richiesta una nuova certificazione rilasciata dal governo per poter operare su suolo cinese. Oppure che le importazioni di componentistica per il settore aerospaziale vengano bloccate per ragioni di sicurezza nazionale.
Ecco, questo è soltanto un assaggio di ciò che potrebbe accadere agli Usa, al di là delle importazioni, in una vera guerra commerciale.
A punto c’è solo da augurarsi che, quelle cui stiamo assistendo, non siano altro che schermaglie prima di sedersi attorno a un tavolo e trovare un accordo.