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Commentary
Scossa al Camerun? Elezioni presidenziali e questione anglofona
Andrea Minelli
| 11 ottobre 2018

In Camerun soffia un nuovo vento di cambiamento? A giudicare dal fermento che agita i social media del paese dopo le elezioni presidenziali di domenica 7 ottobre, sembrerebbe di sì. Basandosi su stime costruite sulle pubblicazioni dei risultati da parte dei singoli seggi, dalla sera stessa di domenica hanno cominciato a dichiarare la sconfitta di Paul Biya, secondo presidente più longevo del continente attualmente in carica.

Alla testa del suo nuovo partito, il Movimento per la Rinascita del Camerun (MRC), Maurice Kamto, avvocato, studioso ed ex ministro, ha cavalcato l’onda dei social e si è auto-proclamato vincitore delle elezioni, invitando Biya a una transizione di potere pacifica. Nessun risultato ufficiale tuttavia è stato ancora prodotto dalla commissione elettorale e la possibilità di una transizione pacifica attraverso le elezioni è piuttosto bassa in un paese che ha conosciuto solo due presidenti dalla sua indipendenza nel 1960. In carica da 36 anni, è difficile immaginarsi il “padre della nazione” Paul Biya lasciare il palazzo presidenziale di Etoudi con facilità. Inoltre, il timore di brogli elettorali è elevatissimo.

Non tutti i camerunesi hanno potuto votare. In aggiunta allo storico problema delle iscrizioni alle liste elettorali e all’instabilità dell’Estremo Nord a causa della minaccia terroristica di Boko Haram, la popolazione delle regioni anglofone del Nord Ovest e del Sud Ovest non ha potuto recarsi alle urne.

Sono infatti passati esattamente due anni dai primi scioperi degli avvocati anglofoni, martedì 11 ottobre 2016, e la situazione securitaria in queste due regioni è col tempo sprofondata in guerriglia. Il Camerun, paese pacifico dai tempi della guerra del “maquis” negli anni dell’indipendenza, ultimamente sofferente nelle regioni settentrionali a causa dalla minaccia di Boko Haram, si trova a vivere un nuovo conflitto, che in molti cominciano ormai a definire come una vera e propria “guerra civile”. Quell’11 ottobre 2016, tuttavia, nessuno avrebbe mai immaginato cosa avrebbe atteso le regioni anglofone nei due anni successivi.

Divisi fra Francia e Regno Unito sotto mandato della Società delle Nazioni, i due Camerun francofono e anglofono ottengono l’indipendenza in momenti diversi, formando nel 1961 uno stato federale (che diventerà stato unico nel ’72). Un’unificazione mal fatta, operata dal Camerun anglofono in posizione di inferiorità, con poco potere contrattuale nei confronti del già Presidente Ahmadou Ahidjo. Siamo all’origine della “questione anglofona” che riemergerà periodicamente nei decenni successivi, mentre le operazioni di accentramento del potere da parte di Ahidjo prima e di Paul Biya poi, proseguiranno indisturbate.

Mai tuttavia le rivendicazioni anglofone erano ancora sfociate in un vero e proprio conflitto armato. Le proteste settoriali degli avvocati dell’autunno 2016, che reclamavano il rispetto da parte del governo della loro tradizione di Common Law, la traduzione in inglese di testi giuridici e la nomina nelle regioni di magistrati che conoscessero la lingua inglese, diventano le proteste degli insegnanti, e dagli insegnanti agli studenti, fino a ravvivare sopiti, ma latenti e profondi, malesseri generali.

Alle manifestazioni che inizialmente e in larga parte si sono svolte pacificamente, il governo ha risposto con la forza: fra ottobre e febbraio 2017 si sono stati almeno 82 arresti, 9 morti e numerosi feriti da arma da fuoco, senza contare le violenze.  È proprio questo utilizzo della forza e la comparsa tardiva di risposte concrete da parte del governo che radicalizza gli animi e fa parlare la popolazione di federalismo e poi di secessione.

L’1 ottobre 2017 la regione anglofona proclama simbolicamente la propria indipendenza con il nome di “Ambazonia”, con manifestazioni pacifiche diffuse in tutta la regione, represse in vari casi nel sangue.

In seguito la situazione si complica, con violenze, uccisioni e rapimenti di funzionari pubblici e gendarmi da parte delle milizie separatiste e distruzione di villaggi e altrettante violenze e uccisioni da parte del governo. I villaggi in zone rurali, teatro preferito degli scontri, diventano spesso deserti, con la popolazione che si rifugia nella foresta o presso parenti e conoscenti nella regione francofona. In totale si parla di 300 mila sfollati interni e 25 mila rifugiati nella vicina Nigeria. Intere zone rurali rimangono isolate dal commercio e da ogni tipo di trasporto. Reperire varietà di cibo non prodotte in loco e cure sanitarie anche primarie diventa operazione estremamente difficile. Un crepuscolo triste dunque. 

Eppure, ci sono dei segnali di speranza. Il primo segnale positivo è che una fetta della popolazione non desidera altro che la pace, e non sostiene certamente il governo ma neanche i ribelli. Un dialogo serio e costruttivo, preludio di una risoluzione del conflitto, è ciò a cui più aspira. 

Il secondo segnale positivo, che merita attenzione e sostegno da parte del governo e degli attori internazionali, viene da un network dei principali leader religiosi del paese (Consiglio Protestante, Consiglio Superiore Islamico e la Conferenza Episcopale Nazionale del Camerun). Ponendosi in termini neutrali, il 19 settembre hanno pubblicato una lettera aperta diretta agli attori del conflitto, nel tentativo di limitarne le azioni più brutali. Hanno inoltre proposto l’organizzazione di una Conferenza Generale Anglofona, come prima iniziativa di dialogo. Tale conferenza, già rinviata, dovrebbe tenersi il 21-22 novembre.

Il dialogo, tuttavia, è ancora una prospettiva lontana e i toni del governo necessitano di essere smorzati. Il rilascio di detenuti che non hanno commesso violenze e la messa da parte della retorica del “terrorismo” anglofono potrebbero essere dei primi passi significativi. Ad ogni modo, il processo di pace si preannuncia non facile, essendo fondamentale la presenza sul tavolo di lavoro di temi bollenti come la forma di governo (federale o decentralizzata), la rappresentazione degli anglofoni in decisioni di economia, politica e cultura, e lo svisceramento delle ingiustizie e discriminazioni subite storicamente dagli anglofoni. Senza parlare della smobilitazione e del disarmo delle milizie separatiste, e del loro reinserimento nella società. Più di mille giovani (secondo una cauta stima di International Crisis Group) che hanno combattuto e vissuto la guerra in nome di grandi sogni e ideali, trovando probabilmente in essa anche un proprio ruolo sociale, si troveranno faccia a faccia con un mercato del lavoro che lascia disoccupate schiere di laureati in tutto il paese. Con l’aggravante della recessione economica causata dal conflitto nel Sud Ovest e nel Nord Ovest.

Sono queste le sfide che attendono il futuro presidente. Il Camerun è un paese in bilico e la condizione di instabilità che sta attraversando deve essere riconosciuta e risolta a partire dalla sue cause più profonde. Perché ciò accada, è necessario la comunità internazionale eserciti le sue pressioni nella direzione giusta.

 

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Tags

Africa Cameroon

AUTORI

Andrea Minelli
Università degli Studi di Milano

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