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Commentary

Se all'UK Independence Party non basta l'opting out

22 marzo 2013

Il Partito britannico dell’indipendenza (UK Independence Party – Ukip) venne creato all’inizio degli anni Novanta (1993), in seguito alla dissoluzione della Lega Anti Federalista, nata nel 1991 per contrastare le proposte contenute nel Trattato di Maastricht. Animato da forti sentimenti antieuropeisti, l’Ukip interviene con vigore ormai da una ventina d’anni nel dibattito politico legato ai vantaggi e agli svantaggi associati all’appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea e, non pago delle varie clausole opting out di cui ha beneficiato Londra nel corso degli anni caratterizzanti il processo d’integrazione europea, ha continuato a basare la propria azione politica sull’ostilità verso le stesse istituzioni europee. 

Il partito si definisce “democratico e libertario”, intendendo in ciò una condotta rispettosa al tempo stesso del sistema democratico e delle libertà civili ed etologiche. La fortuna politica dell’Ukip, che nel periodo molto recente è cresciuto visibilmente (oggi ha 12 membri nel Parlamento europeo, 3 membri nella Camera dei Lord, un membro nella Assemblea dell’Irlanda del Nord e molti consiglieri eletti negli organi di amministrazione locale), è legata alle opportunità di contrastare le misure di emergenza europea dettate dalla situazione di crisi. Il bersaglio principale dell’azione del Partito britannico dell’indipendenza è stato naturalmente il Partito Conservatore di David Cameron, il quale è costantemente accusato di essere debole e arrendevole di fronte alle misure di austerità pensate e proposte dall’Europa comunitaria. In questo senso, se l’Ukip è riuscito ad aumentare i propri consensi nel corso degli ultimi mesi in ragione di un virulento nazionalismo antieuropeista, molto oscuro rimane il progetto di società promosso dal partito stesso.

Il leader del Partito britannico dell’indipendenza è Nigel Farage, un politico quarantottenne, originario del sud-est dell’Inghilterra, che guida il partito quasi ininterrottamente da più di sei anni. Abile nella parola, diretto e talvolta crudo nei contenuti, Farage ha fondato il proprio discorso politico sui rischi e sui pericoli derivanti dal sostegno costante del Regno Unito alla politica comunitaria. Che si tratti di politica sociale, fondata su una maggiore libertà di circolazione dei lavoratori nell’ambito dello spazio comunitario, o di politica economica, eretta su una maggiore convergenza delle misure anticrisi proposte sia in area euro, sia in area non euro dell’Unione Europea, l’Ukip non ha esitato a sparare a zero sulla condotta del governo Cameron, accusando Downing Street di arrendersi ai dettami decisi dalla tríade franco-germano-italiana. Proprio il primo ministro Mario Monti, infatti, è stato uno dei suoi maggiori bersagli. 

Nel dicembre 2011 Monti fu uno dei principali sostenitori della creazione di un meccanismo salva stati per l’area euro, nonché del nuovo strumento tendente a impedire l’esistenza, in futuro, di qualsivoglia deficit del bilancio degli stati (il cosiddetto accordo nominato Fiscal Compact). Durante il famoso Consiglio europeo di Bruxelles del 9 dicembre 2011 il Regno Unito di Cameron (insieme al governo della Repubblica Ceca) si rifiutò di firmare l’accordo e cedette all’ala più intransigente della City londinese, la quale aveva a cuore non tanto la stabilizzazione dell’area euro nell’Unione Europea, quanto l’indipendenza gestionale dei meccanismi patrimoniali, in funzione delle responsabilità internazionali legate ai grandi gruppi finanziari britannici. Ebbene quando il primo ministro italiano si recò a Londra, nel gennaio 2012, per incontrare David Cameron e per cercare di convincerlo (senza successo) a rivedere la propria posizione in relazione al Fiscal Compact, in un articolo scritto il 17 gennaio del 2012, Nigel Farage disse: «Se fossi il Signor Cameron direi al Signor Monti di dimettersi. Egli non ha alcuna legittimità, è oltraggioso che sia stato insediato d’ufficio senza essere stato eletto. (…) Gli Italiani possono forse desiderare che altri paesi vengano in salvataggio della loro condizione finanziaria, ma devono capire che essi sono troppo grandi perché il resto dell’Europa li possa aiutare. (…) Ciò che il Signor Cameron deve sottolineare è che noi non siamo una mucca da denaro per progetti politici falliti come quello dell’Unione Europea».

Il linguaggio crudo del Partito britannico dell’indipendenza, pertanto, da almeno due anni a questa parte, ha posto il Partito Conservatore di Cameron sotto grande pressione, sottraendogli voti, consensi, membri già eletti e nuovi candidati. Solamente pochi giorni or sono, il 28 febbraio 2013, in occasione delle elezioni per il seggio di Eastleigh (vicino a Southampton) l’Ukip ha conquistato il 27,80% dei consensi, collocandosi al secondo posto, dopo i liberal-democratici e davanti sia al Partito Conservatore, sia al Partito Laburista; il 17 marzo 2013, inoltre, una candidata del Partito Conservatore, Victoria Ailing, ha deciso di lasciare il partito per aderire all’Ukip, seguendo le tracce di altri politici negli anni precedenti. Ciò potrebbe introdurre una fase di emorragia pericolosa per il Partito Conservatore e preparare un tracollo elettorale molto più vicino della data scelta dal primo ministro britannico per il referendum sulla permanenza o meno di Londra nell’Unione Europea (fine 2017).

Ciò che, tuttavia, lascia perplessi molti osservatori, in relazione al progetto politico del Partito britannico dell’indipendenza, è l’alternativa proposta: una società retta da una politica nazionalista, rivolta a una palingenesi dell’entusiasmo verso il Commonwealth (quindi velatamente neoimperialista), scarsamente sensibile verso i lavoratori immigrati europei e molto permissiva sul piano sociale (favorevole sia alle coppie omosessuali, sia alle condotte talvolta non condivise dalla morale dominante). In questo risiede l’anomalia dell’Ukip, rispetto ad altri partiti simili (ad esempio rispetto al Fronte Nazionale in Francia): diverse formazioni politiche esprimenti gli ideali della destra euroscettica continentale sono orientate verso una concezione nazionale della politica, forgiata da ostilità nei confronti dell’integrazione europea e da un’identità culturale profonda, nonché da una visione fondamentalmente conservatrice dei valori della società, il partito di Nigel Farage sembra invece collocarsi in mezzo a uno strano connubio, in cui si mescolano valori di destra (Cameron lo ha più volte accusato di essere un partito razzista) a valori di sinistra (l’approccio libertario). Malgrado tale ambiguità, tuttavia, il primo ministro britannico dovrà certamente prestare un’attenzione crescente all’emergenza dei consensi attratti dall’Ukip.

* Stefano Pilotto, MIB School of Management, Trieste e Università degli Studi di Trieste.
 
Leggi il Dossier Euroscettici d'Europa: non solo Grillo

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