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Balcani

Se in Bosnia torna l’incubo della guerra

Giorgio Fruscione
19 novembre 2021

Sono settimane di altissima tensione in Bosnia-Erzegovina. Da oltre un mese, il membro serbo della presidenza tripartita, Milorad Dodik, minaccia la tenuta del governo centrale con l’intenzione di ricostituire un esercito serbo-bosniaco e con il trasferimento delle competenze esclusive di Sarajevo in favore della Republika Srpska (RS), una delle due entità – quella a maggioranza serba – che compongono il paese.
In un rapporto destinato all’ONU e divulgato dal Guardian a inizio mese, l’Alto rappresentante Christian Schmidt ha allertato che la Bosnia corre il rischio di nuovi conflitti e divisioni. La possibilità di un’altra guerra resta, al momento, solo sulla carta. Al netto della retorica con cui la Serbia sostiene la Republika Srpska, questa non gode del supporto internazionale necessario per un’avventura bellica. Ciò non significa che per la Bosnia non ci saranno conseguenze sul lungo periodo deleterie quasi quanto una guerra. Sarà infatti molto difficile sanare la frattura istituzionale tra lo stato centrale e le autorità serbo-bosniache.

 

Cosa sta succedendo?

Le paure espresse dall’Alto rappresentante – istituzione che rappresenta la comunità internazionale e che garantisce l’attuazione degli accordi di pace di Dayton del 1995 – si basano su una serie di atti ed eventi che hanno animato la politica bosniaca degli ultimi mesi. A fine luglio, pochi giorni prima che terminasse il suo mandato, il predecessore di Schmidt, Valentin Inzko (in carica dal 2009 al 2021), aveva imposto un emendamento del codice penale bosniaco che vieta la negazione del genocidio di Srebrenica e l’esaltazione dei criminali di guerra. Da allora, Dodik e il suo partito hanno eretto le barricate. Prima boicottando le istituzioni statali, successivamente annunciando la creazione a Banja Luka – capitale de facto della RS – di diverse strutture parallele sottraendo quindi a Sarajevo molte delle già poche competenze esclusive dello stato centrale. In particolare, Dodik vuole trasferire in RS l’agenzia del farmaco, e rimodulare a livello locale il sistema di tassazione e quello della giustizia. Un’altra legge, infine, vorrebbe ritirare i serbo-bosniaci dall’esercito centrale e ricostituire quello della Republika Srpska. A fine ottobre, inoltre, la polizia della Republika Srpska ha organizzato due diverse esercitazioni delle forze speciali per la prevenzione del terrorismo, una della quali sulla montagna di Jahorina, vicino la capitale Sarajevo. Una serie di eventi, conditi da toni minacciosi, che nella popolazione ha rievocato le immagini della guerra civile del 1992-’95 e che fa traballare l’intero paese, che da decenni si regge su un precario equilibrio nazionale ed internazionale.

 

Un incubo ricorrente?

La crisi che sta attraversando la Bosnia non è un fulmine a ciel sereno. È il risultato di anni di contrapposte politiche nazionaliste che con gli accordi di Dayton non vennero eradicate, bensì trovarono nuova linfa. L’accordo che mise fine alla guerra ha configurato il futuro assetto costituzionale ed istituzionale del paese, basandolo però su un principio etnico che solo sulla carta garantisce equa rappresentanza ai tre gruppi costituenti: bosgnacchi, serbi e croati. In realtà, il sistema Dayton esclude le identità civiche, nonché gli appartenenti agli altri gruppi etnici (come rom ed ebrei), lasciando quindi che le istituzioni siano espressione quasi unicamente dei partiti nazionalisti bosgnacchi, serbi e croati.
Nel dopoguerra, la multi-livellata politica bosniaca si è perciò sviluppata lungo le direttrici dei tre gruppi costituenti, i cui principali partiti hanno saldato i propri progetti sul ricorso costante alla difesa dell’interesse nazionale, piuttosto che sulla promozione di un’identità unitaria e trasversale, specialmente nel caso di serbi e croati. L’unitarismo bosniaco-erzegovese è stato promosso quasi esclusivamente dai partiti bosgnacchi (che rappresentano circa metà popolazione), mentre dall’altro lato la politica dei serbo-bosniaci (un terzo della popolazione) ha costruito la propria fortuna alimentando continuamente la paura di una assimilazione, se non addirittura cancellazione nazionale. Ed è per questo che Dodik e il suo partito, che da quindici anni detiene il monopolio politico in Republika Srpska, hanno ciclicamente minacciato la possibilità di un referendum per l’indipendenza dell’entità. Minacce che non hanno ambito tanto ad una reale secessione quanto piuttosto al mantenimento del suddetto monopolio. Quelle di Dodik sono dunque mosse coerenti con il proprio curriculum politico, e la crisi odierna è più che altro un innalzamento dell’asticella della retorica nazionalista.
Dal dopoguerra le crisi politiche sono state una costante. Il rischio è che quella attuale più che una paralisi sia una definitiva metastasi del sistema istituzionale bosniaco.

 

Responsabilità internazionali?

Le responsabilità della comunità internazionale nel pantano bosniaco hanno radici profonde. Gli stessi accordi di pace promossi dalla diplomazia USA hanno funzionato da cessate-il-fuoco, senza garantire la costruzione di uno stato funzionale. Negli anni, la presenza internazionale è stata poi ridotta quasi solamente alla figura dell’Alto rappresentante, la cui azione di salvaguardia degli accordi è oscillata tra l’essere o troppo debole o eccessivamente incisiva. Come nel caso dell’emendamento che punisce il negazionismo: un’imposizione accusata di essere un’interferenza da parte dei serbo-bosniaci, che ora chiedono l’abolizione del ruolo ricoperto da Christian Schmidt. E questa richiesta è appoggiata anche dalla Russia, che ha minacciato di porre il veto al Consiglio di sicurezza Onu in occasione del rinnovo della missione internazionale Eufor Althea qualora non fossero stati eliminati i riferimenti all’Alto rappresentante. Richiesta che alla fine è stata accolta, soprattutto perché la diplomazia occidentale sul dossier bosniaco non ha mai seguito una linea univoca e coerente.
Se l’Unione Europea non può più garantire una futura stabilizzazione con la promessa di integrazione, già utopica per i paesi della regione che a differenza della Bosnia godono perlomeno dello status di candidati, gli Stati Uniti si sono rivelati una presenza fantasma. L’inviato speciale del Dipartimento di stato Gabriel Escobar ha incontrato personalmente Dodik, e assicura che il leader serbo bosniaco è aperto “a discutere il ritiro delle leggi che indeboliscono le istituzioni centrali”. Ad ogni modo, è legittimo pensare che al momento la politica estera statunitense non concentrerà troppi sforzi nella crisi bosniaca.
Quanto alla possibilità di sanzioni, Washington potrebbe rinnovare quelle verso Dodik, che dal 2017 non può recarsi negli USA e le cui proprietà verrebbero congelate, ma senza sortire troppi effetti. Quelle di Bruxelles, invece, sono già state indicate da Dodik stesso come il possibile pretesto per portare la Republika Srpska a “dichiarare la propria indipendenza”. Ad ogni modo, è difficile che tutti i 27 le sostengano all’unanimità. Il “non-paper” della scorsa primavera, quando si parlò della secessione in Bosnia come “via d’uscita”, originava da una delle cancellerie sull’asse sovranista che lega Slovenia ed Ungheria, ed è facile immaginare che uno dei rispettivi premier, Janez Jansa e Viktor Orban, possa essere contrario alle sanzioni contro la Republika Srpska.
Quanto alla Serbia, la retorica ufficiale di Belgrado si divide in due filoni. Da un lato il presidente Aleksandar Vucic che vuole mantenere la parvenza di leader garante di pace e stabilità nella regione sostenendo l’inviolabilità dell’integrità territoriale bosniaca; dall’altro, un aperto sostegno a Dodik – che passa più tempo in Serbia, in compagnia dello stesso Vucic – ma che difficilmente può andare oltre la retorica. La Serbia, così come la Croazia, è infatti uno dei garanti degli accordi di Dayton.

La guerra in Bosnia è destinata a restare un rischio realistico. Tuttavia, nessuno è in grado di condurla apertamente. E per assurdo è questo ciò che renderà il paese ancora più instabile. Per anni, infatti, i nazionalisti hanno avuto più successo nel mantenere questo pericolo costante ed imminente, piuttosto che nel preparare concretamente il terreno per uno scontro armato.
Infine, il sistema di Dayton risulta essere vittima e carnefice dell’attuale crisi. Una sua radicale riforma, fondata sul benessere dei cittadini bosniaco erzegovesi, prima ancora che sulla predominanza dei gruppi etnici costituenti, è quanto mai necessaria.

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AUTORI

Giorgio Fruscione
ISPI Research Fellow - Desk Balcani

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