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Commentary

Se Donald Trump incontra Pietro

Alberto Melloni
24 maggio 2017

Oggi Trump incontra Papa Francesco: le premesse non sono certo le migliori, dopo i mesi di schermaglie che hanno visto i due in opposizione su numerosi fronti, dai migranti al clima alla pena di morte. Che tipo di incontro sarà?

“Oro e argento non ho”. Così Pietro, secondo gli Atti degli Apostoli, dice nella prima “udienza” raccontata dagli Atti degli Apostoli: il primo audito è un paralitico, incontrato nei pressi del tempio e consente al corifeo degli apostoli di fare il suo primo miracolo “nel nome” di Gesù. Conoscendo papa Francesco e la lettura che sta facendo, durante la liturgia di questo tempo del secondo tomo dell’opera di Luca e dell’Apocalisse di Giovanni, sarà questa cifra molto biblica quella che dominerà il suo incontro con Trump: fissato, come chiesto dagli americani, prima del G7 di Taormina, ad evitare situazioni imbarazzanti, e collocato in un giorno di udienza generale, in un orario mattutino e quasi costringendo la sicurezza ad accettare condizioni materiali assai poco favorevoli. 

Ma è questo modo di pensare “petrino” con cui Trump si scontrerà mercoledì andando in udienza da papa Francesco. “The Real Donald” si troverà infatti davanti un uomo che non ha “né oro né argento”, ma che è Pietro. E lo è in un modo che oggi quasi deborda dal perimetro istituzionale del ministero petrino nella tradizione cattolico-romana.

 

In che senso?

La tradizione latina ha considerato per molto tempo ogni vescovo “vicario di Pietro”, come argomentava Cipriano di Cartagine; e poi ogni vescovo s’è fregiato del titolo di “vicario di Cristo”: con un altro titolo che alla fine è stato assunto per antonomasia dal solo papa di Roma, titolare del ministero petrino, con tutte le questioni e sfumature che lo connotano. Il successore di Pietro di oggi, Bergoglio, indossa però questo compito con una intensità specifica. Egli arriva a questo incontro con “Potus” – sul filo di quella spontaneità politica che in un gesuita fa sempre sospettare un sofisticato disegno – avendo compiuto una non piccola riforma del papato. Lo ha fatto a norme invariate (è il suo stile e il suo limite), ma lo ha fatto: una riforma che ha reso il vescovo di Roma voce della comunione imperfetta delle chiese.

La fraternità con il patriarca ecumenico Bartholomeos, l’abbraccio con Kyril il patriarca di Mosca e di tutte le Russie, l’accordo con la chiesa copta di papa Tawardos sul battesimo, il progettato viaggio con l’arcivescovo di Canterbury in Sudan, l’abbraccio di Lund con le vescove e i vescovi luterani, i contatti fraterni perfino coi pentecostali hanno confermato non solo la credibilità ecumenica guadagnata dal papato al Vaticano II –  non hanno dato a Francesco una fisionomia banalmente “universale”. Quella espressione  (cara alla ideologia di Roma Mommsen ma invisa a Gregorio Magno), è stata spesso invocata ideologicamente: ma oggi non dice la realtà della voce di Francesco. Che parla forte di un implicito mandato e di una credibilità specifica che gli consente di dire cose importanti a nome della fraternità dei cristiani.

 

Un Papa con un mandato molto forte dunque, che incontra un Presidente il cui mandato appare invece sempre più fragile.

Un mandato che permette a Pietro di dire “guarda verso di noi”, come sta scritto in quella pericope di At 3 e che oggi il papa ripete al presidente dall’incostante e piroettante pragmatismo. “Oro e argento non ho” dice Pietro. Ma il vicario di Pietro di oggi al di là di ogni parola, dei finti retroscena, dei comunicati ufficiali già scritti con l’inchiostro rosa, dell’affanno patetico degli uomini del potere attenti a non perdere nemmeno una opportunità di esposizione mediatica del proprio superego – farà sentire a Trump il peso di un mondo che gli è estraneo: che è il mondo dei perdenti e dei perduti: dunque dei poveri. Alla chiesa dei poveri ripugna la “fame di caos” (definizione perfetta del New York Times) di Potus e là dove lui compie piroette militariste nel definire amici e nemici, chi segue la via di Gesù vede solo un mondo vecchio, diviso fra troppo poveri e troppo ricchi, fra sfruttati e sfruttatori, vittime e carnefici.

Il presidente che ha giocato a farsi giocare dalla Russia è oggi vulnerabile: e forse sa già che i russi pronosticavano cinque mesi prima del voto la sua elezione ma anche una presidenza che per un motivo o per l’altro sarebbe stata korotkiye, cioè breve. Ma verrà più sorpreso che colpito da un cristianesimo che legge il mondo con tutta la forza impolitica del vangelo dei poveri. Per lui, abituato al prosperity gospel di Paula White e dei pastori evangelicali che lo avevano fisicamente “unto” come baluardo cristiano, fra gli ori volgari della sua casa newyorchese, il 24 sarà un giorno difficile, ammorbidito dal tatto diplomatico.

 

Trump come Enrico IV di Franconia umiliato a Canossa?

Non sarà una Canossa. Sarà peggio. Perché a Roma Trump non troverà né la neve né le mura, né Matilde, né Gregorio VII. Troverà la fine del ciclo che proprio in quel secolo XI era iniziato: il grande ciclo della cristianità nel quale si pensava che il potere e il papato fossero condannati, ancora una volta, ad una reciproca subordinazione indissolubile. Era l’ideologia che aveva spinto la chiesa a comportarsi come un potere e a trattare con i poteri con la spregiudicatezza necessaria: un reciproco implicarsi, entro cui stavano la lotta con Federico II, l’incoronazione di Carlo V, “Parigi val bene una messa”, il concordato col Terzo Reich, l’uomo della Provvidenza. Quella mentalità non si è esaurita e ha già dato prova di risorgere dalle sue crisi: ma oggi non è “vigente”, per dire così.

 

Non potrebbe essere anche questo il senso dell'incontro di oggi?

No. Se quella mentalità fosse ancora vigente, ci sarebbe stato comunque un vantaggio per Trump nel chiedere udienza al papa che nel febbraio 2016 lo aveva fulminato con la sentenza “chi fa muri non è cristiano”. E poteva essere perfino necessario che il papa che si era sentito accusare da Trump di essere “un politico al soldo del Messico”, fingesse di dimenticare il tweet malaugurante dell’allora candidato nel quale si diceva che quando l'Isis avrebbe attaccato il Vaticano ("ISIS's ultimate trophy") la Santa Sede avrebbe potuto solo sperare che alla Casa Bianca ci fosse lui, Trump. Ma questa logica non funziona, almeno adesso: perché non è quella di Pietro, non è quella del vicario del Pietro di oggi e non funziona nemmeno nella diplomazia della segretaria di Stato di Pietro Parolin.

 

E da parte di Trump? Ufficialmente il suo primo viaggio all’estero, o almeno la sua prima parte, doveva rendere omaggio alle tre religioni Abramitiche. Non può essere un tentativo di riavvicinarsi anche alla Chiesa di Pietro?

Trump ha cercato di vestire il suo viaggio con un paludamento religioso, facendo tappa in Arabia, presso i luoghi santi dell'Islam e poi a Gerusalemme, città santa di Israele e di tutti i credenti: un viaggio nei luoghi della fede dei figli di Abramo, ma che tocca luoghi dove la potenza militare americana è un ombrello indispensabile e dove l’industria militare fa da apripista per operazioni spericolate come l’investimento saudita in tecnologie militari che oggettivamente costringe Israele a riparametrare le proprie strategie.

Ma a Roma non servono gli ombrelli e Pietro non compra armi. Pietro, che non è come i vescovi americani e non ha complessi, non si farà nemmeno pitonare da promesse sui temi “non negoziabili” che hanno spinto a destra l’episcopato statunitense, e che, in Italia, ricordano il piccolo cabotaggio dello scambio politico fra berlusconiani e ruiniani, tutto centrato su valori che non valevano né sempre né per tutti. Pietro dirà a nome di tutti i cristiani e di tutti i fratelli non cristiani di tutti i cristiani, che quel che conta è la pace.

 

E Trump invece cosa dirà?

Davanti a questa “iusti simplicitas” Trump non potrà agitare la persecuzione di quelle chiese che sono sopravvissute solo perché erano fuori dalla cristianità ed erano vissute in terra d’islam e il cui equilibrio è stato polverizzato da 36 anni di guerre ingiuste e cieche, fatte a spese di una coabitazione perduta dal 1990. E soprattutto non riuscirà a far dimenticare che la sua è la prima amministrazione che ha cercato di scassare l'unità della chiesa e della chiesa cattolica americana in ispecie. La torbida figura di Steve Bannon, il guru ideologico cattolico, è stato la spalla mediatica del cardinale Burke e dei suoi compagni di dubia: e Bannon è stato fotografato a Riad in una ostensione provocatoria.

Alla “politica ecclesiastica” del guru reazionario di Breitbart, che manipola la petulanza del cattolicesimo conservatore per mordere il papa, Francesco non ha reagito e non reagirà. In parte con la souplesse di chi ricorda il vecchio adagio (“chi mangia papa, crepa”) ripetuto sui Savoia e giunto come sempre ad effetto; in parte con la tranquillità di chi sa davanti che “the Real Donald” ci sarà “the Real Peter”. Che gli ha ritagliato un po’ di tempo, fra la messa del mattino e l’udienza del mercoledì, e in pochissimo gli mostrerà che fra i telepredicatori e Pietro c’è un abisso. Di fede.

 

Alberto Melloni, professore ordinario di Storia del Cristianesimo, Università di Modena - Reggio Emilia, e direttore della Fondazione per le Scienze religiose Giovanni XXIII, Bologna

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Alberto Melloni
Professore ordinario di Storia del Cristianesimo, Università di Modena - Reggio Emilia, e direttore della Fondazione per le Scienze religiose Giovanni XXIII, Bologna

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