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Summit per la democrazia

Se gli USA isolano l’Ungheria di Orban

Monica Perosino
10 Dicembre 2021

Convocare un vertice per la democrazia è un progetto ambizioso, questo sì, ma allo stesso tempo è un progetto al quale nessuno – a parte dittatori e autocrati – potrebbe opporsi. Così è stato, quando nel luglio 2019, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, in piena campagna elettorale, ha annunciato la volontà di convocare un “summit mondiale per la democrazia”, con il doppio obiettivo di rendere centrali a livello globale i principi e le istituzioni democratiche e, allo stesso tempo, di rilanciare la leadership statunitense dopo l’era Trump.

Il 9 e il 10 dicembre Joe Biden ha riunito i leader di oltre 110 paesi nel suo vertice virtuale per la democrazia, nelle stesse ore l’Unione europea ha lanciato il programma Global Europe Human Rights and Democracy del valore di 1,5 miliardi di euro, che intensifica il sostegno alla promozione e alla protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, della democrazia e dello stato di diritto e del lavoro delle organizzazioni della società civile. In tutto questo parlare e occuparsi di democrazia la “lista degli invitati” di Biden al summit manda un segnale fortissimo: tra i 110 paesi convocati, figurano anche l’Iraq (un regime autoritario, secondo Freedom House) e il Pakistan (un regime ibrido). Mentre in Europa Biden ha invitato la Polonia, nonostante il conflitto sullo stato di diritto, ha invitato l’Albania, un “regime transitorio o ibrido”, ha invitato la Serbia, nonostante le sue discutibili credenziali democratiche, e anch’essa definita “democrazia ibrida”. Ha invitato tutti i paesi europei, tutti tranne uno: l’Ungheria del premier Viktor Orban.

Una scelta che manda un segnale fortissimo, vista anche l’inclusione di altri paesi dell’Unione che in quanto a solidità delle istituzioni democratiche non brillano affatto. Lo smacco più flagrante per Orban è che al summit è stata inclusa la sua strettissima alleata, la Polonia, che con l’Ungheria viaggia a braccetto su innumerevoli piani, a cominciare dalle posizioni comuni in seno all’Ue fino alle battaglie sovraniste domestiche.

La lista degli invitati, legata più agli interessi geopolitici degli Stati Uniti che ai criteri fissati da Freedom House, marchia il premier magiaro con un doppio stigma: quello del leader non democratico e, più importante, quello dell’”amico della Cina”.

Il vertice, infatti – che pur rappresenta un “fronte democratico” approssimativo alla cui testa marciano gli Stati Uniti –, ha escluso Cina e Russia, ma ha accolto Taiwan, conferendo all’incontro un sentore di alleanza in funzione anticinese. In questo contesto, la “vicinanza” di Budapest a Pechino ha giocato un ruolo cruciale, in una fase in cui la politica di “apertura all’Est” (Keleti Nyitás) praticata da Orban è vista come una falla nell’Unione europea. Tra gli stati membri, solo in Serbia la penetrazione del soft power cinese sembra essere più diffusa e profonda di quanto lo sia in Ungheria. Con una differenza fondamentale: Orban non si limita a fare affari e a ricevere investimenti da Pechino come fa Belgrado, ma si espone nelle sedi istituzionali e non con azioni dichiaratamente sinofile. L’ha fatto, ad esempio, bloccando la dichiarazione congiunta europea di condanna per le limitazioni della democrazia a Hong Kong, o ospitando il più grande centro logistico di Huawei fuori dalla Cina o, ancora, approvando la somministrazione del vaccino Sinovac (oltre allo Sputnik). Questa “amicizia” deve aver irritato parecchio Washington, che ha sancito l’esclusione dal “tavolo democratico” di un paese che, dopo anni di avvicinamento agli Stati Uniti di Trump, è stato paragonato da Biden ai “regimi totalitari”.

Orban, in conflitto con l’Unione europea per lo stato di diritto e ora anche con gli Stati Uniti di Biden, fa rispondere ai suoi diplomatici (“scelta oltraggiosa”, quella di escludere l’Ungheria dal summit), mentre si muove con la sua rodata strategia di blocco in seno all’Ue, funzionale all’aumento del consenso interno in vista delle elezioni della primavera 2022. 

Mettere all’angolo Budapest potrebbe essere stata una mossa che Orban cercherà di sfruttare a suo favore, come ha sempre fatto. D’altronde, il premier magiaro sostiene da sempre che in un mondo sempre più multipolare è necessario stringere relazioni economiche con le potenze emergenti dell’Eurasia, pur abbeverandosi alla fonte economica della Ue. Questo spiegherebbe l’apparente indifferenza ai richiami e alle procedure di infrazione dell’Europa sullo stato di diritto. Quando guardare a Ovest non conviene, c’è sempre l’opzione Est. Soprattutto dopo che la Corte Suprema Ue ha stabilito che sia legittimo bloccare i fondi del Pnrr ai paesi in cui lo stato di diritto non è garantito e i 7 miliardi di euro del Recovery Plan ungherese sono fermi a Bruxelles.

L’esclusione dal summit di Biden potrebbe giovargli anche da un punto di vista politico interno: le elezioni sono vicine e Orban ha bisogno di un nuovo “nemico” contro cui lanciare le sue battaglie sovraniste. Lo schema si ripete dal 2010, prima con i migranti, poi con Soros, con le persone Lgbtq+, infine con i media e Bruxelles. E chi meglio degli Stati Uniti, che ora vengono accusati di voler interferire nelle elezioni di aprile e che, “cercano di dividere gli stati per conquistare l’Europa”? Chi meglio di Washington che “con Soros e i suoi miliardi vuole fare eleggere i candidati di sinistra”?

Con i sondaggi che danno un testa a testa tra Orban e la coalizione d’opposizione, il premier della “democrazia illiberale” deve premere sull’acceleratore: “Ciò che importa non è quello che vogliono a Bruxelles, a Washington e sui media, che sono diretti dall’estero. Saranno gli ungheresi a decidere del proprio destino", tuonava a un comizio lo scorso ottobre, nell’anniversario della rivolta del 1956 contro il dominio sovietico. L’oltraggio di Biden ha dato un nuovo assist al leader magiaro che ora può pacificamente parlare di “doppio standard” e scagliarsi contro un nuovo nemico, mentre aumenta le pensioni del 5% ed elargisce sussidi alle famiglie. “L’Ungheria non ha problemi di democrazia così seri come gli Stati Uniti", ha detto Gergely Gulyás, capo gabinetto di Orban, e ha aggiunto: “In Ungher

ia, non siamo al punto in cui quasi un terzo degli elettori pensa che le elezioni democratiche siano state truccate". La strategia ormai è chiara e, in un certo senso, coerente con quella che ha mantenuto Orban al potere negli ultimi undici anni. Ora sarà da vedere se l’ulteriore isolamento in cui Biden ha cacciato Orban, che torna a reagire con la retorica della “difesa della Nazione e della sua indipendenza dagli attacchi esterni”, sarà un punto a favore del leader magiaro o una spinta a un cambio di rotta politico dell’Ungheria.

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USA Ungheria Viktor Orbán
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AUTORI

Monica Perosino
La Stampa

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