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Proteste e repressione
Se il caos in Iraq conviene a Trump
Claudio Bertolotti
24 gennaio 2020

Dal 1° ottobre, Baghdad e nove province a prevalenza sciita sono state scosse da manifestazioni di protesta per chiedere la fine della presenza statunitense e iraniana, della corruzione, le dimissioni del governo ed elezioni anticipate attraverso una nuova legge elettorale che, nelle intenzioni, dovrebbe limitare l'influenza di Teheran. Piazza Tahrir è divenuta il simbolo della protesta irachena.

Poi l’uccisione da parte statunitense del generale Qassem Soleimani – il potente capo delle Forze al-Quds – avvenuta a Baghdad il 3 gennaio. E ancora proteste e violenza dove le forze di sicurezza irachene e le milizie armate sciite sostenute dall'Iran hanno condotto una sanguinosa repressione che ha provocato la morte di circa 500 persone, attivisti, semplici cittadini, giornalisti.

Una repressione che è servita da comburente al movimento di protesta che venerdì 24 gennaio ha portato in piazza a Baghdad migliaia di persone, guidate dal predicatore sciita Moqtada al Sadr sostenuto da quelle milizie filo-iraniane che furono create da Soleimani. Un crescendo di opposizione e violenza che fa il gioco di un Iran il quale, dopo la simbolica rappresaglia dell’8 gennaio – attacchi missilistici contro le basi statunitensi in Iraq, senza alcuna conseguenza – punta all’uscita statunitense dall’Iraq attraverso una duplice strategia basata, da un lato, su una manovra politica e, dall’altra, sulle manifestazioni popolari.

 

Gli iracheni vogliono cacciare gli Stati Uniti dal paese?

Il 5 gennaio scorso il parlamento iracheno – hanno riportato molti media – “ha votato per porre fine alla cooperazione con la coalizione internazionale” e per “espellere le forze statunitensi dall'Iraq”. I blocchi curdi e sunniti si sono astenuti dal voto, descrivendolo come una risposta inappropriata all’uccisione di Soleimani e di Abu Mahdi al-Muhandis, vice comandante delle unità di mobilitazione popolari.

Ma quel voto, sulla base del quale si è ipotizzato il ritiro statunitense dal Paese, è vincolante? E prima ancora, è regolare? In realtà no, in quanto la votazione sarebbe avvenuta senza il raggiungimento del quorum. Non solamente i parlamentari curdi e quelli sunniti avrebbero disertato la votazione ma anche alcuni deputati appartenenti al blocco sciita, facendo così mancare il numero legale di parlamentari.

Ciò che ne è seguito – gli annunci di un ritiro immediato e le minacce di indipendenza da parte delle regioni a prevalenza sunnita – sono frutto dell’amplificazione mass-mediatica di un’informazione non corrispondente al vero. Una fake-news? Più che altro il risultato di un’efficace capacità di propaganda in linea con gli obiettivi iraniani; una trappola comunicativa in cui sono caduti molti giornalisti.

 

L’effetto del “voto” parlamentare: la minaccia di uno “Stato” sunnita

In risposta all’iniziativa politica sciita per l’espulsione delle forze statunitensi, a cui fanno eco le manifestazioni di piazza sostenute da Teheran, i partiti sunniti vicini a Washington stanno riconsiderando un progetto per creare una regione semi-autonoma in Iraq, arrivando a ipotizzare (o meglio, minacciare) la scissione dall’Iraq e, dunque, l’indipendenza.

Secondo alcune fonti, importanti leader sunniti si sarebbero incontrati a Dubai il 12 gennaio per discutere della formazione di una regione sunnita nell’Anbar, ampia regione a prevalenza desertica al confine con la Siria, in cui il ruolo operativo e di supporto statunitense è considerato fondamentale per il controllo del territorio e il contrasto a uno Stato islamico tutt’altro che sconfitto.

Per Washington, l'idea di creare una realtà sunnita autonoma o indipendente risale a una proposta del 2007 (poi ripresa nel 2010) di Joe Biden, ora candidato presidenziale del Partito democratico, in funzione di contenimento anti-iraniano e finalizzata a creare una zona cuscinetto controllata dagli Stati Uniti per privare Teheran delle rotte terrestri verso la Siria e, da qui, al Mediterraneo. In tale quadro si definisce il ruolo dell’Iraq come ponte strategico tra l'Iran e i suoi alleati in Siria, Libano e nei territori palestinesi.

L’ipotesi è guardata con favore dall’amministrazione statunitense che potrebbe anche sfruttare la minaccia di una zona autonoma o indipendente per indurre il governo a decisioni meno radicali per scongiurare il rischio di una divisione dell’Iraq. Ed è proprio in questa prospettiva che va letta la strategia statunitense: una manovra politica per raggiungere una migliore posizione negoziale funzionale alla creazione di un governo favorevole a Washington, e quindi alla sua presenza militare.

 

Numero e ruolo delle truppe straniere in Iraq

Attualmente sono schierati in Iraq circa 5.200 soldati statunitensi, insieme a circa 4.000 di altre nazioni occidentali, tra cui 1.100 italiani e quasi 500 soldati britannici. Una parte di questi è impegnata in attività operative di combattimento contro i resti dello Stato islamico, ma la maggior parte supporta l’esercito iracheno in attività di addestramento.

Si tratta di un contingente significativamente ridotto che, a fronte di un ridimensionamento dell’impegno contro la minaccia dello Stato islamico, dovrà contrarsi lasciando contingenti ridotti e un minore numero di basi, ponendo così termine a tutte le attività non essenziali ma garantendo una presenza strategica nell’area. Una presenza che, al tempo stesso, rappresenta una garanzia di sicurezza sia da parte delle forze irachene che per i contingenti degli altri paesi, Italia inclusa.

 

Cosa accadrà in Iraq?

Lo scenario più probabile è quello di una riduzione del numero delle truppe straniere, senza però un abbandono definitivo dell’Iraq da parte di Washington; di fatto un accordo di compromesso in base al quale la presenza straniera sarà semplicemente ridotta.

Molto improbabile è invece un ritiro totale poiché aprirebbe a uno scenario di destabilizzazione analogo a quello post-2012, quando l’allora presidente Barack Obama ritirò le truppe statunitensi dall’Iraq, aprendo così alla diffusione e consolidamento dell’ISIS che sarebbe diventato di lì a poco lo Stato islamico che ha destabilizzato la regione negli anni successivi.

Il risultato a cui il presidente Trump aspira è duplice: da un lato punta a “disinnescare” le tensioni regionali, portando a negoziare le componenti sciite e sunnite (e curde) e andando incontro alle esigenze delle parti più rilevanti.

Dall’altro lato questa opzione rappresenta un’opportunità elettorale per Trump, che così concretizzerebbe la promessa fatta al suo elettorato di ritirare le truppe dal Medioriente (di fatto solo sul piano comunicativo).

Un risultato win-win quello di Trump sia in termini geopolitici che elettorali.

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AUTORI

Claudio Bertolotti
Direttore di START InSight, ricercatore italiano presso la “5+5 Defence Initiative”

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