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FOOD SECURITY

Se il granaio del mondo brucia

Tommaso Emiliani
06 maggio 2022

L’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo e la conseguente guerra che si combatte da oltre due mesi nel Paese hanno scosso molte delle apparenti sicurezze su cui si basa l’ordine mondiale costituito dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991. Tra i repentini cambiamenti verificatisi spicca la nuova incertezza che circonda le filiere globali di approvvigionamento di materie prime e merci. Russia e Ucraina coprivano, prima della guerra, il 12% del fabbisogno calorico mondiale e si trovavano ai primi posti quali maggiori esportatori di grano, frumento, orzo, semi di girasole e potassa (uno dei principali componenti dei fertilizzanti da coltivazione).

Già prima dell’invasione russa dell’Ucraina il commercio mondiale di prodotti agro-alimentari stava vivendo una acuta fase di stress dovuta a prezzi record. Tra le cause, una combinazione di crescenti costi energetici legati alle tensioni diplomatiche tra i maggiori produttori mondiali di gas e petrolio e il resto della comunità internazionale; le criticità logistiche e gli ampi sprechi legati al funzionamento just-in-time delle filiere produttive globalizzate investite dalle chiusure e dai ritardi causati dalle politiche di contrasto al COVID-19; e una serie sempre più ricorrente di eventi climatici estremi verificatisi in Paesi del mondo che ricoprono un ruolo fondamentale nel commercio agro-alimentare quali lunghi periodi di siccità in Brasile, Argentina ed Africa Orientale uniti a vaste inondazioni in Cina.

La guerra ha esacerbato le tensioni già esistenti, creandone parallelamente di nuove. In Ucraina un gran numero di campi coltivati a cereali sono diventati teatri di battaglia. Le preoccupazioni maggiori, nel medio periodo, riguardano la pianificazione del raccolto invernale e della semina primaverile, che hanno subito uno stravolgimento profondo sull’intero territorio nazionale a causa della distruzione di infrastrutture sensibili e della paralisi (o riconversione militare) della manodopera agricola. L’avanzata delle forze occupanti russe nel sud-est del territorio ucraino ha un impatto diretto sulla sicurezza alimentare mondiale. L’occupazione delle città portuali di Mariupol, di Kherson e di Berdyansk e l’assedio perdurante di Mykolaiv - insieme alla precedente annessione russa della Crimea nel 2014 - configurano uno scenario in cui resta il solo baluardo di Odessa a frapporsi ancora (per il momento) tra la Russia e la completa rimozione all’accesso al Mar Nero dell’Ucraina.

Il blocco dei porti ucraini significa impossibilità di procedere alle esportazioni di prodotti agro-alimentari via mare, cioè attraverso la via logisticamente più efficiente, rapida ed economica per garantire l’approvvigionamento dei Paesi medio-orientali e, attraverso lo stretto dei Dardanelli e il Mar Mediterraneo, di quelli africani. Occupazione dei porti significa anche, parallelamente, il raggiungimento di un dominio russo quasi monopolistico sul controllo dei flussi commerciali di tali prodotti che passano per chokepoints agro-alimentari di importanza strategica, anche se resta da vedere nel medio periodo se la comunità internazionale accetterà la nuova situazione come un dato di fatto o se verrà messo in atto un radicale e dispendioso processo di diversificazione dei fornitori e dei prodotti importati per rispondere alla situazione.

Nel frattempo, in Russia e Bielorussia, che insieme rappresentano il 20% delle esportazioni mondiali di fertilizzanti, i volumi commerciali sono drasticamente diminuiti dall’inizio della guerra. Da un lato, un gran numero di Paesi occidentali hanno applicato forti sanzioni ai due Stati riconosciuti corresponsabili dell’invasione. Dall’altro, la Russia ha dato prova di crescente uso geopolitico dei timori legati al futuro della sicurezza alimentare globale, bloccando le esportazioni di semi di girasole, imponendo rigide quote massime all’esportazione di olio di girasole e minacciando il blocco totale delle esportazioni di cereali e fertilizzanti agli attori inclusi nella crescente lista dei “Paesi non amici” del Cremlino. La Russia esercita inoltre un ulteriore controllo indiretto sul commercio dei fertilizzanti dovuto al grande consumo energetico di gas naturale legato all’uso di questi.

Si calcola quindi che attraverso la simultanea riduzione dell’offerta globale di cereali dovuta al conflitto, le restrizioni delle esportazioni di fertilizzanti ed il vertiginoso aumento dei prezzi dell’esportazione di gas necessario per il loro uso, la Russia ha innescato una crisi globale che potrebbe portare ad una riduzione di fino al 10% dei volumi di esportazioni di cibo su scala globale.

 

 

Gli effetti asimmetrici della crisi

Come nel caso delle conseguenze sociali, economiche e politiche legate alla pandemia del COVID-19, anche la guerra in Ucraina produce effetti asimmetrici sui diversi Paesi colpiti dalle turbolenze che sferzano le filiere agro-alimentari globali. Tali effetti dipendono da fattori quali la prossimità geografica all’epicentro del conflitto; le caratteristiche strutturali della geo-economia dell’approvvigionamento dei diversi Paesi; e dai legami storici e diplomatici che legano gli Stati del mondo ad Ucraina, Russia e Paesi terzi che possono fungere da sostituti nella soddisfazione del fabbisogno di materie prime e prodotti fertilizzanti.

É fondamentale sottolineare che l’impatto più profondo e tragico della guerra sarà percepito dalla popolazione e dell’economia ucraina, dai comuni cittadini - privati del più elementare accesso al cibo, acqua, ed energia - ai contadini impossibilitati (in alcune zone del Paese) o fortemente limitati a procedere alla vendita ed esportazione dei loro prodotti, fino alla totalità del sistema economico del Paese che soffrirà profonde conseguenze dovute agli stravolgimenti dei cicli e dei volumi del raccolto annuale.

In quest’analisi, tuttavia, verranno discusse le conseguenze della crisi delle filiere agro-alimentari dal punto di vista dell’ Unione Europea, un costrutto politico che nel momento storico attuale si vuole attore geopolitico rilevante.

 

La dimensione interna: un dibattito politico polarizzato a dispetto di un’economia resiliente

I 27 Paesi del blocco dell’Unione Europea producono un surplus di grano, cereali, e frumento per i pascoli. Ciò significa che il volume produttivo basta a coprire il fabbisogno europeo e consente anche di esportare una consistente quota di prodotti agro-alimentari verso Stati terzi. L’enfasi della Politica Agricola Comune (PAC) sulla protezione di contadini e consumatori, unita alle regole competitive del Mercato Unico consentirebbero di prevedere ragionevolmente che una vera crisi delle scorte di cibo non si verificherà nel breve e medio periodo. Il condizionale è tuttavia d’obbligo, perché la condizione essenziale per il funzionamento del Mercato unico è il mantenimento di flussi commerciali aperti tra gli Stati membri: tale condizione sarebbe messa a repentaglio se altri Paesi seguissero l’esempio dell’Ungheria, dove a marzo il governo di Orbán ha messo al bando le esportazioni di grano. La Bulgaria – Paese che esporta volumi ben superiori rispetto all’Ungheria - ha paventato una simile misura in reazione alla decisione di Budapest e altri Paesi potrebbero seguire con conseguenze imprevedibili. L’auspicio è che, come nel caso delle restrizioni unilaterali di mascherine e ventilatori che contraddistinsero la prima fase della pandemia di COVID-19, la situazione si stabilizzi e la Commissione Europea riesca ad assumere il ruolo di coordinatore delle operazioni di rifornimento dei Paesi del blocco.

Se la disponibilità di cibo in Europa non sembra in discussione nel breve e medio periodo, l’aumento esponenziale dei prezzi dell’energia e di pesticidi e fertilizzanti costituisce un pericolo serio per i consumatori e contadini con i redditi più bassi, come dichiarato perentoriamente dalla Commissione Europea. Mentre i Paesi membri dell’UE dispiegano a vari livelli le loro reti di previdenza sociale per proteggere i propri cittadini e Bruxelles si impegna a distribuire 500 milioni di euro ai contadini europei, il dibattito sulle priorità politiche da perseguire e le prossime mosse da attuare divide politici e gruppi d’interesse.

Nell’ambito del commercio globalizzato, l’attore deputato a risolvere le crisi legate agli aumenti di prezzi del cibo è solitamente il mercato: i contadini accrescono la produzione per inseguire profitti più elevati, con la conseguenza di far scendere i prezzi a causa dell’aumento dell’offerta. Tuttavia, due fattori principali complicano la possibilità di un aumento produttivo da parte dei contadini europei: la scarsità ed il costo dei fertilizzanti; e gli ostacoli all’accrescimento del terreno coltivabile in Europa, dovuti in parte a limiti geografici dell’affollato continente europeo, ed in parte agli obiettivi di sostenibilità ambientale e di protezione della biodiversitá dell’Unione. Questi ultimi prevedono in particolare la riduzione dei pesticidi del 50% e dei fertilizzanti del 20% entro il 2030, insieme all’aumento della quota di terreni destinati all’agricoltura biologica fino al 25% del totale e di quelli non coltivabili destinati alla protezione della biodiversità fino al 10%.

Tale situazione ha portato all’emergere di due fazioni principali nell’arena europea. Da una parte, i grandi gruppi di interesse privati e i loro rappresentanti politici che da anni si battevano contro gli ambiziosi obiettivi verdi delle strategie Farm to Fork & Biodiversity hanno saputo saldare il fronte con quegli attori istituzionali che vedono nel robusto aumento produttivo un obiettivo ineludibile sul cui altare è legittimo sacrificare le ambizioni ambientaliste. A questo campo eterogeneo appartengono la principale associazione dei contadini europei COPA-COGECA; il gruppo politico conservatore dei Popolari Europei, che ha la maggioranza al Parlamento Europeo e guida il Comitato sull’Agricoltura; fino al presidente francese Emmanuel Macron.

Dall’altra parte, il fronte degli attivisti ambientalisti e degli scienziati sensibili al tema del cambiamento climatico ha trovato degli alleati relativamente inaspettati in quei politici ed analisti che ritengono che il vero strumento geopolitico per avvicinare l’agognata sovranità alimentare sia la riduzione della dipendenza da fertilizzanti e la liberazione di terreno agricolo attraverso la riduzione dei campi destinati al pascolo animale che occupano attualmente più del 70% del totale. Il socialdemocratico Timmermans, grande artefice del Green Deal Europeo, è stato tra i più autorevoli esponenti di questo campo a sottolineare il vantaggio comparato che una riduzione dell’uso di fertilizzanti porterebbe all’Europa rispetto a Paesi vincolati all’impiego intensivo quali gli Stati Uniti,.

Colta tra due fuochi, la Commissione Europea ha scelto - come spesso accade - una soluzione di compromesso. Da una parte ha ribadito la cogenza degli obiettivi di medio periodo delle strategie Farm to Fork e Biodiversity in vista del raggiungimento dei traguardi del Green Deal e dell’accordo sul clima di Parigi, resistendo quindi a quanti chiedevano una vera rinegoziazione delle priorità politiche in seguito alla guerra. Dall’altra, ha ceduto parzialmente alle richieste di chi chiedeva di congelare la strategia verde concedendo una deroga temporanea che permette ai contadini di coltivare anche sulla quota del 10% dei terreni teoricamente destinati alla conservazione della biodiversità, nella speranza di poter riesumare le ambizioni di sostenibilità a partire dal 2023.

 

La dimensione esterna: la necessità di una visione geopolitica

Al contrario dell’’Europa, i rischi per la sicurezza alimentare di milioni di persone in decine di Paesi in via di sviluppo in Africa e Medio Oriente sono gravi ed imminenti. I più a rischio tra questi sono quelli che dipendono totalmente dalle importazioni per soddisfare il proprio fabbisogno di cereali, e che prima della guerra importavano una larga quota da Russia e Ucraina: Paesi come Giordania, Yemen, Libano, Libia ed Egitto devono fare i conti con quella che è stata definita la “tempesta perfetta”. Altri Paesi, come Somalia, Congo, Sudan, Etiopia, Eritrea e Burundi avrebbero in teoria una dipendenza minore dalle importazioni dai Paesi impegnati nel conflitto europeo, ma a causa delle loro fragilità socio-economiche pregresse hanno poche possibilità di adattamento all’aumento dei prezzi e poco margine per diversificare l’approvvigionamento attraverso canali e fornitori più onerosi.

La situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che il World Food Programme, l’agenzia ONU responsabile per la distribuzione di aiuto alimentare umanitario, sta attraversando una doppia crisi: da un lato,

l’aumento dei prezzi ha comportato la necessità di tagliare nettamente le razioni fornite alle persone in condizioni di necessità in giro per il mondo. Dall’altro, il fatto che il maggiore donatore mondiale di grano al WPF fosse proprio l’Ucraina comporterà ulteriori, drammatici tagli. Nelle parole di David Beasley – il direttore del WFP – “non abbiamo altra scelta che togliere il cibo agli affamati per darlo a coloro che stanno morendo d’inedia”.

La storia insegna come ciclicamente la frustrazione sociale legata all’aumento dei prezzi del cibo sia foriera di grave instabilità politica. Oltre all’esempio – talvolta abusato – dei moti di protesta che contribuirono a scatenare le cosiddette ‘Primavere arabe’ nello scorso decennio, un caso lampante sono le proteste contro l’aumento dei prezzi dell’energia e del cibo scoppiate all’inizio dell’anno in Kazakistan, che sono state represse con il sangue di almeno 225 vittime dal governo centrale appoggiato dalle forze speciali russe.

L’Unione Europea ha davanti a sé uno scenario geopolitico difficile. All’inizio del conflitto, si è fatta trovare impreparata dalla reazione di quei Paesi africani e mediorientali che – stretti tra la pressione diplomatica occidentale e le carenze di approvvigionamenti dovute alla dipendenza dalla Russia – si sono trincerati dietro una neutralità diplomatica mal digerita nel nostro continente. Eppure, se si analizza la geografia del voto sulla risoluzione dell’Assemblea Generale ONU che condannava l’aggressione della Russia, si noterà che tra i 40 Paesi che non hanno votato a favore ve ne sono numerosi tra quelli più colpiti dall’aumento dei prezzi. In altre parole, tra le varie chiavi interpretative per interpretare tale voto si può a buon diritto ascrivere la possibilità che tali Paesi abbiano voluto lanciare un segnale contro le possibili sanzioni alla Russia, giudicate oltremodo punitive anche per la sicurezza alimentare di Stati terzi coinvolti. Superato lo stordimento, la Commissione Europea ha varato un pacchetto di 554 milioni di aiuti ai Paesi africani del Sahel e del lago Ciad per alleviare la crisi umanitaria ed investire nella sostenibilità dei sistemi agro-alimentari locali, includendo anche l’aumento della produttività agricola nel rispetto del territorio.

Il recente passato, nella forma degli eventi legati alla distribuzione dei vaccini ai Paesi in via di sviluppo da parte dei Paesi europei durante la pandemia, insegna però che i beneficiari di aiuti umanitari hanno spesso sentimenti contrastanti a riguardo ai donatori. I paesi europei vennero presto accusati di ipocrisia nella gestione delle donazioni, a causa del loro impegno intermittente nella distribuzione dei vaccini che mescolava una retorica improntata sull’equità dell’accesso alle cure con una pratica di trattamento preferenziale riservato ai cittadini dei Paesi occidentali. Nel pieno della pandemia molti paesi in via di sviluppo si rivolsero quindi ad interlocutori quali Russia e Cina, il cui approccio puramente transazionale veniva considerato più trasparente, e in quanto tale, affidabile di quello europeo.

Per evitare che il passato si ripeta, l’Europa dovrebbe perciò scegliere un tono geopolitico in linea con il profilo di maggiore spessore che vuole dare alla sua politica estera. Ciò dovrà tassativamente passare per un approccio meno paternalistico alle relazioni con i Paesi africani e medio-orientali, che consenta di sostituire la cortina fumosa dell’umanitarismo timido con la rivendicazione del diritto del blocco europeo di trattare i propri interessi su un piano di reciprocitá, in cambio del trasferimento di prodotti e conoscenze agro-alimentari, tecnologici ed organizzativi. In gioco c’è il supporto dei membri cruciali del vicinato europeo nell’affrontare le grandi sfide comuni del secolo: la lotta al cambio climatico, l’impegno contro la criminalità organizzata e una intensa collaborazione sociale ed economica finalizzata allo sviluppo reciproco delle rispettive comunità.

 

Le opinioni espresse dall’autore sono personali e non riflettono necessariamente la posizione dell’Istituto di appartenenza.

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Tommaso Emiliani
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