Il punto di non ritorno è forse già arrivato. Lo shutdown statunitense sarà terminato con buona probabilità entro pochi giorni e lo spettro del default tecnico per via del debt ceiling non si materializzerà mai sotto l’amministrazione di Barack Obama. Quello che è significativo è però un altro aspetto. Il braccio di ferro fra Democratici e Repubblicani sta diventando l’emblema dell’italianizzazione della politica statunitense, facendo perdere di credibilità gli Usa. Tuttavia, l’arroccamento dei due principali partiti politici americani sulle rispettive posizioni – tutto verte intorno alla spesa pubblica e ai tagli obbligatori – ri-chia di essere un pericolo reale per i mercati finanziari? E se sì, cosa succederebbe?
A livello finanziario, il maggior impatto di un default tecnico degli Usa potrebbe essere sul mercato obbligazionario. Le stime effettuate da Goldman Sachs (GS, Global macro strategies, October 2013) e Morgan Stanley (Morgan Stanley, Global Credit Outlook, October 2013) lasciano poco spazio all’ottimismo. Pur ricordando che il default non è lo scenario di base, la banca di Lloyd Blankfein ritiene che si avrebbe un innalzamento medio dei tassi d’interesse dei bond governativi, su scala mondiale, del 2%. Ipotesi analoga, seppure differente per pochi decimali, quella di Morgan Stanley. Se così fosse, i gestori dei portafogli obbligazionari dovrebbero apportare svalutazioni pari all’11% dell’intero pacchetto. Costo totale? Circa 4.500 miliardi di dollari. Una cifra molto superiore a quella che, secondo il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), rappresenta il costo dell’avvio del tapering, cioè l’assottigliamento, del Quantitative easing 3 (QE3) della Federal Reserve. Il ritiro degli stimoli monetari della Fed innalzerebbe, nello scenario di base, i tassi d’interesse dei bond governativi a livello globale di circa un punto percentuale. Vale a dire perdite per 2.300 miliardi di dollari.
Il secondo effetto si avrebbe sul mercato valutario. Dato che il dollaro statunitense rimane la valuta di riserva per eccellenza – il 63% delle riserve valutarie globali è denominato in dollari, secondo il Fmi – le fluttuazioni della moneta americana in caso di default potrebbero essere tanto violente quanto imprevedibili. Il principale interdealer broker mondiale, Icap, ha calcolato che un default tecnico degli Usa causerebbe una volatilità sui cross fra dollaro e altre valute, specie quelle degli Emerging markets, simili a quelle vissute dopo il collasso di Lehman Brothers, la quarta banca statunitense caduta il 15 settembre 2008.
Ci sarebbe poi un terzo effetto, che rientra più nei meccanismi di finanza comportamentale che in quelli di finanza operativa in senso stretto. In caso di default tecnico degli Stati Uniti, gli operatori finanziari entrerebbero in preda al panico. È questo il classico esempio di non-evento che diventa un evento, tanto distruttivo quanto profondo, per una serie di sfortunati eventi correlati. Fino al 13 settembre 2008 gli agenti economici non ritenevano possibile un fallimento di Lehman Brothers. Due giorni dopo capirono che si erano sbagliati. Ed è proprio in questi casi, come ha scritto Amos Tversky (Prospect Theory: An Analysis of Decision Under Risk, Econometrica, 1979), che dal razionale tipico delle scelte d’investimento di lungo periodo, e i titoli di stato americani rientrano in questa categoria per il basso livello di rischio di controparte, si passa a un’irrazionalità di brevissimo periodo votata all’avversione al rischio. Traduzione: sell-off sui Treasury in portafoglio, liquidazione di parte delle quote nei Money Market Fund (Mmf) statunitensi, chiusura di diverse posizioni aperte con il dollaro sul fronte valutario.
Infine, la quarta conseguenza, quella sul commercio estero. Dato il disallineamento dell’allocazione della liquidità a livello globale e l’avversione al rischio degli operatori finanziari, si potrebbe verificare un congelamento, più o meno temporaneo, del commercio internazionale. Un’ipotesi condivisa anche da HSBC (HSBC, Delay not default, Global Fixed Income Strategy Special, 7 October 2013). Sebbene nemmeno la banca anglo-asiatica ritenga possibile un default-event americano, il suo capoeconomista Stephen King ha scritto che «la rottura del vincolo di fiducia fra Usa e investitori, ma anche operatori economici in generale, bloccherebbe i flussi commerciali per diversi giorni, forse settimane». Proprio come avvenne per Lehman Brothers.
Sotto il profilo della credibilità internazionale, l’impasse del Congresso sullo shutdown ha già provocato un forte sentimento d’indisponenza dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e dei Mikt (Messico, Indonesia, Corea del Sud, Turchia) verso gli Stati Uniti. Non è un caso che Cina, India e Brasile stiano alzando la voce affinché Obama trovi la qua-dratura del cerchio. La battaglia politica su shutdown e debt ceiling è l’emblema del declino statunitense? Forse sì, come già teorizzato da Parag Khanna (How to Run the World: Charting the Course to the Next Renaissance, 2011) prima e Iam Bremmer (Every Nation for Itself: Winners and Losers in a G-Zero World, 2012) dopo. In un mondo senza padroni, gli Usa ritengono ancora di agire come se lo fossero, flirtando con il disastro. La speranza è che dal flirt non si passi alla storia d’amore. Il mondo post-Lehman non ha bisogno di questo.