C’è chi parla di “sorpresa” commentando il risultato emerso dalle urne nella tornata elettorale appena trascorsa. Sorpresa perché a vincere non è stato il cavallo su cui puntava – a detta di molti – Khamenei; sorpresa perché a tagliare il traguardo al primo turno, senza andare al ballottaggio, è stato il candidato che durante la campagna elettorale era andato più vicino a varcare quelle pesanti linee rosse tracciate a monte dal sistema e che delimitano ciò che si può o non si può fare per non essere estromessi dalla corsa. Esiste però un livello più profondo al quale guardare per comprendere l’esatta portata di questa supposta “sorpresa”.
Questa tornata elettorale rappresentava un banco di prova soprattutto per la tenuta del modello di stato islamico così come architettato dalla mano esperta di Khomeini, che come un abile sarto ha modellato una struttura statuale “duale”, a doppia legittimazione – religiosa e politica – atta a tenere insieme due componenti difficilmente conciliabili: Repubblica e Islam. Un difficile equilibrio, quello tra la componente a legittimazione religiosa e la componente a legittimazione popolare, che sembra essersi incrinato con le elezioni del 2009, sebbene già dal 1989 – anno della morte di Khomeini e della modifica costituzionale che ha permesso l'ascesa del semplice Hojjat ol-Eslam Ali Khamenei al rango di Rahbar – l'esperimento khomeinista si fosse imbarcato sul piano inclinato che ha fatto precipitare la Repubblica Islamica nell'attuale stato di crisi.
La graduale ascesa agli alti ranghi dello stato del “partito degli elmetti”, quegli esponenti di pasdaran e basij divenuti parte del sistema grazie all’alto tributo di sangue pagato sul fronte iracheno durante la guerra del 1980-88, ha portato a un’altrettanto graduale radicalizzazione del discorso rivoluzionario, che ha subito un’accelerazione con l’elezione nel 2005 di Mahmoud Ahmadinejad. Andando a pescare nel vasto serbatoio di coloro che, a trent’anni dalla rivoluzione, erano ancora “senza scarpe” (mostazafin), Ahmadinejad e la sua fazione si sono resi interpreti di una rilettura della rivoluzione, questa volta tesa a vendicare coloro che, proprio dalla rivoluzione, sono stati traditi.
È in questo contesto che si è acuito il solco tra i due centri di potere che contano realmente: l’establishment clericale riconducibile alla Guida Khamenei e la “generazione del fronte” riconducibile a pasdaran e basij. Ed è in questo contesto che bisogna leggere l’elezione del “moderato” Rouhani. Mentre le piazze iraniane sono in festa per l’elezione di questo Hojjat ol-Eslam dal sorriso rassicurante, e mentre la grancassa dei media si spreca nell’elogiare la grande svolta moderata di Teheran, alcune questioni continuano ad adombrare il difficile cammino dell’Iran post-rivoluzionario.
In primo luogo, è necessario mettere bene a fuoco l’appellativo di “moderato” che il buon Rouhani si è guadagnato in questa corsa elettorale a otto – e poi a sei. La definizione di moderato è infatti tarata sullo spettro politico iraniano, non certo su quello occidentale. Con la graduale radicalizzazione del discorso rivoluzionario, si è verificato uno spostamento dell’asse sempre più verso l’estremo, con il risultato che i “moderati”, pur collocandosi a una certa distanza dall’estremo del continuum, risultano comunque decisamente spostati verso posizioni non esattamente concilianti.
Del resto, le solide credenziali rivoluzionarie e la fedeltà ai precetti della rivoluzione rappresentano una prerogativa insindacabile per poter avere accesso al sistema. Tutti gli uomini ammessi al complesso gioco politico iraniano sono accomunati dall’aver avuto un ruolo nella lotta contro lo Shah e nello sforzo di edificazione della Repubblica Islamica, soprattutto nel decennio 1979-1989. Rouhani, nello specifico, dopo lo scioglimento del Partito Repubblicano Islamico avvenuto nel 1987, è transitato, come tutti i clerici fedeli alla linea, nell’Associazione del clero combattente, una formazione politica fortemente eterogenea di orientamento conservatore, della quale fanno parte anche la Guida Khamenei e l’altro “moderato” Rafsanjani.
Questa considerazione ci porta al secondo punto: la vittoria di Rouhani non può essere stata una sorpresa per Khamenei. A differenza di quanto avvenuto nel 2009, quando la legittimazione apparentemente inspiegabile dei brogli elettorali da parte di Khamenei era stata probabilmente dettata dalla necessità di non operare uno strappo con gli ultra-radicali vicini ad Ahmadinejad, è possibile per questa volta ipotizzare un accordo preventivo tra i veri centri di potere (Guida e Guardiani della rivoluzione). I due centri di potere potrebbero avere capito che non si può continuare sulla strada dell’intransigenza, non foss’altro che in questo modo la Repubblica Islamica, continuando a fare il gioco del pazzo, andrebbe con ogni probabilità a sbattere contro il muro, e a quel punto a farsi male sarebbero anche le istituzioni stesse. Lasciare a una persona terza – nello specifico il presidente – l’incombenza dell’apertura, eviterà alla Guida di “perdere la faccia” e permetterà comunque di tenere sotto controllo il livello fino al quale potrà spingersi quest’apertura. Del resto, l’originale architettura istituzionale di cui si è dotato l’Iran post-rivoluzionario “blinda” di fatto la Guida al vertice dell’apparato, dandole il potere di aprire e chiudere le valvole di sfogo del sistema.
Nei calcoli di Khamenei sembra essere pesato inoltre il pesante crollo di consensi che ha fatto seguito alla legittimazione della frode elettorale del 2009. Mentre ciclicamente nelle strade si sentono risuonare slogan come Marg bar dictator, “Morte al dittatore”, emerge una terza generazione di iraniani, che non ha vissuto né gli anni della lotta contro lo shah né quelli della guerra con l’Iraq, e che domanda nient’altro che l’esaudimento, una volta per tutte, delle promesse di libertà che dal 1979 attendono ancora di essere realizzate. Non è casuale che nel 2009 le marce di protesta dell’“Onda verde” si svolgessero da Piazza Rivoluzione a Piazza Libertà.
Certo, guardando le immagini delle piazze iraniane in festa in questi giorni, è difficile non lasciarsi andare a un moto di speranza. La paura, però, è quella di rivivere la frustrazione e la delusione che hanno fatto seguito all’era Khatami, quando il presidente riformista che tanto piaceva alle piazze (anche a quelle occidentali) ha dovuto di fatto abdicare a qualsiasi tentativo di liberalizzazione del sistema per via della pesante controffensiva lanciata dalla fazione conservatrice. Stiamo a guardare, insomma, nella consapevolezza che i veri centri del potere sono altrove e che, fintanto che un organo istituzionale continuerà ad avere il potere di stabilire quali candidati possono presentarsi alla competizione elettorale, non si potrà parlare di vera “sorpresa”.