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EUROPA

Serbia e Ungheria: le teste di ponte di Putin

Giorgio Fruscione
08 aprile 2022

Le elezioni dello scorso 3 aprile in Ungheria e Serbia hanno visto l’ennesimo trionfo dei due leader più autoritari d’Europa: il premier Viktor Orbán, che si avvia al quarto governo consecutivo, e il presidente Aleksandar Vucic, che al primo turno conquista un altro lustro presidenziale. Per l’Unione Europea, e l’Europa in generale, sono risultati che rappresentano un doppio, complementare campanello d’allarme: per la tenuta democratica interna e per la sponda geopolitica che Ungheria e Serbia offrono alla Russia di Vladimir Putin. I collegamenti tra le “teste di ponte” e Mosca sono, tra le altre cose, le forniture energetiche. Il rompicapo europeo che mina la compattezza del fronte occidentale nell’attuale crisi ucraina.

 

Importazioni strategiche: autoritarismo e gas

La deriva autoritaria di Ungheria e Serbia è accomunata dal numero 12. Tanti gli anni di governo ininterrotto di Orbán – che guidò il Paese anche tra il 1998 e il 2002 – e il record di tempo al potere sia di Slobodan Milosevic sia dei democratici che lo spodestarono e che sarà superato da Vucic. Da due anni, le democrazie serba e ungherese sono sfumate al punto da trasformare i rispettivi Paesi in regimi ibridi. Minaccia alla divisione dei poteri, ingerenze politiche nella giustizia, controllo totale dei media e una graduale divergenza dai valori e principi dell’Unione Europea. Questa la ricetta dell’autoritarismo di Budapest e Belgrado: la prima dentro l’UE, la seconda subito fuori. Ma non si tratta di una ricetta autoctona. Bensì di un prodotto importato. Il modello politico di riferimento tanto per Orbán quanto per Vucic è il presidente russo Vladimir Putin.
Per la Serbia, l’alleanza strategica con la Russia ha anche una peculiarità geopolitica: l’indispensabile supporto per la causa nazionale del Kosovo, l’ex provincia serba che Belgrado si rifiuta di riconoscere e per cui sfrutta i blocchi diplomatici dei partner di Mosca. Ciò che invece accomuna il rapporto di Ungheria e Serbia con la Russia sono le ingenti forniture energetiche da cui dipendono i due Paesi.
In termini numerici, la dipendenza dal gas e petrolio russi equivale a oltre il 75% per Budapest, e all’89% per Belgrado. Questa dipendenza è stata contrattualmente blindata dalla visita di Orbán a Putin a poche settimane dall’invasione dell’Ucraina, quando il premier ungherese ha chiesto di rafforzare il contratto con Gazprom dello scorso settembre, aumentando le forniture annuali di gas da 4,5 a 5,5 miliardi di metri cubici. Numeri che aiutano a capire perché l’Ungheria sia il Paese UE più vulnerabile a un eventuale blocco delle importazioni. Ed è per questo che Budapest si sta opponendo all’embargo sui prodotti energetici russi. Orbán ha basato la sua campagna elettorale sulla promessa di tenere lontano il conflitto dalla vita degli ungheresi e il suo veto è coerente con questo programma: sacrificare la compattezza a livello europeo sulle sanzioni, salvando il fabbisogno energetico del Paese.
Anche la Serbia dipende eccessivamente dall’energia del suo “grande fratello”, distribuita tramite l’Industria Petrolifera Serba (NIS), controllata al 56% da Gazprom. Lo scorso novembre il presidente Vucic riuscì a strappare a Putin un prezzo di favore per il gas russo: 270 dollari per 1000 metri cubici. Una delle tariffe più basse d’Europa e che, stando all’accordo, sarebbe valsa solo sei mesi. All’indomani del voto, il presidente russo si è congratulato col suo omologo per il successo elettorale, ma si è parlato anche di affari. La Serbia deve prepararsi a un nuovo contratto ed evitare di subire le conseguenze della guerra. Un eventuale embargo UE, infatti, isolerebbe energeticamente il Paese balcanico, rifornito sia tramite l’Ungheria che con il TurkStream che passa dalla Bulgaria. Inoltre, la richiesta russa di pagare in rubli sarebbe finanziariamente problematica per Belgrado, a causa dell’instabilità del dinaro. Ma la Serbia non rientra nella “lista dei nemici” della Russia e il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, avrebbe già offerto garanzie al suo alleato.

 

I rischi per l’Unione Europea

Una delle percezioni diffuse all’indomani delle elezioni è che il vero vincitore in Ungheria e Serbia sia stata la Russia di Putin. Sicuramente, quest’ultimo cercherà di sfruttare a suo vantaggio il risultato. Rompere il fronte occidentale sulla possibilità di estendere le sanzioni al gas e al petrolio è di vitale importanza per Mosca, che con queste entrate finanzia non solo la guerra in Ucraina ma l’intero sistema economico nazionale. Per la Russia, la garanzia – indiretta – della fedeltà di Budapest e Belgrado è il loro modello autocratico, che non sussiste senza il ricorso alla retorica nazionalista. E tale retorica ha costantemente bisogno di contrapporsi ideologicamente a qualche nemico, meglio se al di fuori dei confini. Per Orbán, infatti, la contrapposizione con l’Unione Europea gli garantisce la compattezza dell’elettorato che, a sua volta, riconosce nel leader la difesa della nazione da un’ingerenza più grande, opprimente e percepita come un attacco ai valori e alla tradizione locali.

Nella Serbia di Vucic, invece, il meccanismo nazionalista funziona diversamente, e il governo ne fa un uso diverso: mentre l’UE rimane il partner essenziale per gli scambi commerciali, la Russia rappresenta l’unico alleato affidabile nella comunità internazionale in grado di tutelare gli interessi nazionali serbi, ovvero la questione del Kosovo. L’alleanza è poi arricchita da elementi culturali e religiosi che aumentano la percezione di vicinanza tra i due popoli e che il “grande fratello” slavo sfrutta abilmente per esercitare la propria influenza nella regione balcanica. Tuttavia, l’oscillazione opportunistica della Serbia tra Occidente e Russia non durerà in eterno. Se Belgrado vuole completare il suo decennale percorso verso Bruxelles, dovrà abbandonare la neutralità, o almeno riconoscersi in un solo modello politico di riferimento.
In definitiva, la sinergia diplomatica a livello UE, anche sulle questioni energetiche, non può che passare per la difesa dello stato di diritto. Bruxelles sembra esser corsa ai ripari con la decisione di vincolare i fondi del bilancio al suo rispetto. Un principio che dovrà essere vincolante anche per i Paesi candidati all’adesione, ed evitare che questi possano trasformarsi in destabilizzanti cavalli di Troia dentro l’Unione Europea

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Carlo Frappi
ISPI e Università Ca' Foscari

Tags

Crisi Russia Ucraina Balcani Geoeconomia
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AUTORI

Giorgio Fruscione
ISPI

Image Credits (CC BY NC-ND 2.0): European Parliament

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