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Commentary
Settori a Rischio: dove il mondo (e la Cina) ripensano le Catene di fornitura
Alessia Amighini
20 marzo 2020

La pandemia in corso sta mostrando al mondo quanto fragile sia il sistema di produzione internazionale del XXI secolo e di conseguenza anche l’intero modello di globalizzazione fondato su un’elevata frammentazione produttiva su scala globale. Da almeno due decenni la Cina è un importante fornitore di beni intermedi in molti settori: il dato globale mostra che le esportazioni cinesi di beni intermedi utilizzati da altri paesi come input per le loro esportazioni sono salite dal 24% delle esportazioni totali cinesi nel 2003 al 32% nel 2018, secondo i dati della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD).

A livello settoriale spesso la Cina ha un peso ancor più elevato come fornitore: il settore degli apparecchi per telecomunicazioni è noto come quello più esposto rispetto ai produttori cinesi. Nei prodotti elettronici, telefonia, computer, mobili e arredo la Cina realizza l’assemblaggio di molti beni di consumo destinati anche all’esportazione. Computer, telefonia e televisori hanno tutti un’organizzazione della produzione su base globale, molti produttori hanno in Cina alcune fasi di produzione e le fasi di assemblaggio, alcuni dei quali con sede nello Hubei. La Cina rappresenta oltre la metà della produzione globale di monitor per televisori e computer, nella sola Wuhan hanno sede cinque fabbriche che producono schermi LCD e OLED. Anche il settore del mobile e arredo è particolarmente dipendente dalle forniture dalla Cina, così come i macchinari elettrici, per le confezioni e la conceria, gli impianti di riscaldamento e raffreddamento. Tutti questi settori dipendono dalla produzione cinese per oltre il 20% a livello mondiale, con picchi superiori al 50%.

 

 

E l’Italia?

Anche l’Italia in molti di questi settori segue questo modello. Se dai dati sembra emergere una dipendenza inferiore dell’Italia rispetto al resto del mondo, in realtà non è vero perché spesso molte forniture proveniente dalla Cina non sono importate direttamente dall’Italia, ma da paesi terzi dai quali poi l’Italia si rifornisce. In queste settimane la cronaca riporta gli innumerevoli blocchi subìti dalle aziende nazionali per la mancata consegna di materiali provenienti da aziende cinesi.

Alcuni ne traggono la conclusione che l’economia cinese è ormai diventata indispensabile e pertanto ogni tentativo di isolarla o isolarsi (come nel caso dell’America di Trump) è destinato a restare vano. In realtà, una riduzione dell’interdipendenza economica tra la Cina e il resto del mondo (se non un vero e proprio decoupling) è destinata ad aumentare nel tempo, per due grandi motivi. Innanzitutto, l’inshoring di attività manifatturiere era in corso già prima della guerra commerciale, e con quest’ultima ha ulteriormente accelerato; oggi l’epidemia sta spingendo molte imprese, grandi e piccole, a riorganizzare le proprie catene di fornitura e di certo non torneranno indietro una volta terminato il rischio di contagio.

 

Scenari futuri

Una conseguenza plausibile di questa pandemia, per il mondo e anche per l’Italia, è il riorientamento delle catene di fornitura verso paesi terzi e verso il sistema produttivo nazionale. Non si tratta del nazionalismo di Trump, ma di una necessaria diversificazione del rischio per troppe aziende oggi ferme per mancanza di input.

La seconda ragione, altrettanto importante, è che la Cina stessa vuole ridurre la sua dipendenza tecnologica dai paesi tecnologicamente più avanzati e aumentare la produzione interna: mentre il mondo diventava sempre più dipendente dagli input cinesi, la Cina cercava di svincolarsi dalle sue importazioni di componenti dall’estero. Il risultato inevitabile, anche dopo l’emergenza sanitaria, è una fase di deglobalizzazione.

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ISPI

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Alessia Amighini

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