Nell’affrontare la questione del ruolo che l’Europa gioca (e potrà giocare in futuro) nel mondo e degli orientamenti strategici che dovrebbero guidarne pensiero e azione, è importante soffermarsi anche su quelli che sono i vincoli strutturali con cui bisogna fare i conti. Quando osserviamo la situazione dei rapporti energetici, questi condizionamenti devono essere tenuti bene a mente, e vale la pena qui ripercorrerli brevemente.
Malgrado gli sforzi compiuti negli ultimi vent’anni per accrescere il contributo delle risorse rinnovabili, allo stato attuale il 76% del mix energetico dell’Unione europea è costituito da fonti di natura fossile (petrolio, gas e carbone). Secondo le previsioni più affidabili, i combustibili fossili continueranno a rappresentare un elemento fondamentale dei consumi energetici totali dell’Ue anche nel prossimo futuro (da qui al 2030 le variazioni rispetto a oggi saranno davvero marginali, nell’ordine del 3-4%). Un primo punto fermo va dunque fissato subito: queste risorse – e il gas in particolare – sono e rimarranno indispensabili.
A fronte di ciò, quali possibilità si presentano davanti ai decisori politici europei? I consigli degli esperti possono essere ridotti a due: conservazione e diversificazione. Da un lato, si sostiene, l’Ue dovrebbe allentare la sua dipendenza dai paesi fornitori, concentrando gli sforzi su risparmio ed efficienza energetica. Dall’altro, l’Unione dovrebbe diversificare ulteriormente le forniture, così da non dipendere strettamente da nessun paese in particolare. Mentre il primo obiettivo appare sacrosanto e la sua fattibilità deriva più dalla volontà degli attori politici e sociali europei che da condizionamenti esterni, sul secondo versante le cose dipendono anche da fattori al di fuori dal nostro controllo e che difficilmente muteranno in futuro.
Bisogna infatti considerare che, in primo luogo, la provenienza degli approvvigionamenti di gas europei dipende dalla geografia in misura molto maggiore rispetto a quanto accade con le forniture petrolifere, perché è più complicato e costoso trasportare il metano via mare rispetto al farlo passare per un tubo. È vero, non sono da sottovalutare gli enormi passi avanti fatti nella liquefazione e nel trasporto del gas via metaniera, tanto che ormai a livello mondiale quasi il 30% del gas viaggia via nave. Tuttavia in massima parte il gas naturale liquefatto raggiunge i mercati asiatici, mentre in Europa continuiamo a dipendere per l’85% dal metano trasportato attraverso i gasdotti.
Le possibilità di diversificazione dell’Unione europea restano dunque costitutivamente limitate. Tra i pochi paesi vicini all’Europa e che dispongono di sufficienti quantità di gas da poterne destinare una parte alle esportazioni (come l’Algeria, la Norvegia e la Libia – senza dimenticare i Paesi Bassi, membro fondatore della Comunità europea), è in Russia che si trovano le riserve maggiori. E dagli approvvigionamenti russi alcuni paesi dell’Europa centro-orientale come Bulgaria, Ungheria e Slovacchia, dipendono completamente.
A ciò si aggiunge un vincolo giuridico: le forniture di gas sono legate a contratti pluriennali (a volte persino trentennali) che solitamente obbligano il paese importatore ad accettare una certa quota minima di gas o a pagare comunque per la differenza tra le importazioni effettive e il minimo pattuito. Se è vero che i contratti sono sempre rinegoziabili – Eni l’ha fatto più volte con Gazprom negli ultimi anni – e che il loro contenuto è determinato da fattori politici almeno tanto quanto da quelli economici, è anche vero che la presenza di un legame esplicito condiziona ulteriormente gli attori e contribuisce a cristallizzare i rapporti esistenti.
Dati questi vincoli, in che modo possiamo uscire dall’attuale impasse, soprattutto nei rapporti con la Russia? Un punto di partenza pare scontato: per accrescere il suo potere contrattuale, l’Europa dovrebbe imparare a parlare con una voce sola. Si tratta tuttavia di qualcosa di molto remoto rispetto a quanto accade attualmente; anche perché all’Unione europea non sono ancora state attribuite reali e tangibili competenze sul versante della sicurezza energetica. È vero, con il Trattato di Lisbona si è cercato di fare un salto in avanti; ma in ogni caso l’azione comune continua a essere limitata dal fatto che le scelte riguardanti il fabbisogno totale e il mix energetico di ciascuno Stato membro sono, e rimangono, competenza strettamente nazionale. È naturale, allora, che persino le raccomandazioni contenute nella prima “Strategia di sicurezza energetica” della storia dell’Unione europea, chiesta proprio dal Consiglio (dunque dagli Stati membri) alla Commissione europea e pubblicata nel maggio scorso, rischino di rimanere lettera morta.
Nemmeno le periodiche crisi del gas sembrano avere aiutato la grande famiglia europea a imparare a parlare all’unisono. Basti pensare che nel 2011 è entrato in funzione Nord Stream, gasdotto fortemente voluto dai tedeschi e che permette al gas (sempre russo) di giungere in Europa passando dal Baltico e scavalcando paesi ‘a rischio’ (l’Ucraina, ma anche la Bielorussia alleata di Mosca). Si parla inoltre da anni del South Stream, il progetto di gasdotto proposto da Mosca per affossare l’ormai dimenticato Nabucco, che aggirerebbe l’Ucraina passando dal Mar Nero. Ancora una volta, sul versante europeo osserviamo particolarismi ed escamotage, anziché un accordo su una strategia unitaria e un’azione comune. Per quanto riguarda il Nord Stream, il fattore nazionale è reso tanto più evidente dalla scelta di affidare la presidenza del consorzio che lo controlla all’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder. E negli ultimi mesi la Commissione europea è riuscita a mettere i bastoni tra le ruote a South Stream – bloccando l’inizio della costruzione dei tratti europei –, appellandosi alla legislazione antitrust europea e negando a più riprese che su tali valutazioni influisse in qualche modo l’attuale confronto politico e diplomatico: una foglia di fico di cui potremmo tranquillamente fare a meno se l’Unione avesse a disposizione competenze di peso sul versante della politica di sicurezza energetica.
Cosa fare, dunque? Appare evidente come sia sempre più necessario inserire le questioni energetiche all’interno di una nuova progettualità europea, che preveda:
1) il trasferimento all’Ue di competenze effettive e rilevanti in materia di sicurezza energetica;
2) l’inevitabile riconoscimento che la Russia rimane un partner energetico fondamentale (malgrado non lo si voglia più chiamare ‘strategico’), ma anche la consapevolezza che i rapporti Europa-Russia non mettono in luce una dipendenza quanto un’interdipendenza, dal momento che le entrate del governo russo derivano per quasi il 40% dai proventi sul gas;
3) la contestuale ricerca di nuove alternative per il medio-lungo periodo. Pensiamo in particolare all’Iran, che dispone di riserve persino superiori a quelle russe. Urge un dibattito per capire se sia interesse europeo migliorare i rapporti con Teheran e allentare la tensione internazionale sul paese, condizione necessaria per fare ripartire gli investimenti e sviluppare le ingenti risorse di gas.
In conclusione, le questioni energetiche altro non sono che una cartina di tornasole del ruolo che l’Unione europea vuole e potrà giocare nel mondo. Le scelte in questo campo vanno quindi inserite all’interno di una strategia di politica estera e di sicurezza comune e coerente. Una strategia che oggi purtroppo non pare essere a portata di mano, ma per la quale è necessario premere sull’acceleratore, pena la prospettiva di un’Europa che rimane senza energie. In tutti i sensi.