Quando nacque, nei lontani anni Settanta, era molto diverso. Si erano incontrati una volta in un’isola dei Caraibi i leader di Stati Uniti, Giappone, Francia, Germania e Gran Bretagna e crearono il G5. Venne aggiunta l’Italia e diventò il G6. Poi, l’anno dopo, il Canada e fu il G7. E tale restò per lungo tempo.
Non era tanto nel numero dei partecipanti che era diverso, quanto proprio nella sostanza. Era, quello, un incontro riservato e confidenziale dei massimi dirigenti di un gruppo di paesi che avevano gli stessi principi, credevano negli stessi ideali e volevano coordinarsi tra loro per far prevalere la loro visione nell’ordine internazionale. Sette paesi con «menti simili», o «like minded», come dicono con un’espressione felice gli anglosassoni. Per operare efficacemente, pensavano i leader di allora, occorre anzitutto essere pochi: l’ingresso dell’Italia fu dovuto in parte all’abilità di un nostro diplomatico che non ha mai voluto mettersi sotto i riflettori e soprattutto alla volontà di inglesi e americani di ancorare all’Occidente un’Italia tentata dal compromesso storico. Il Canada fu aggiunto per riequilibrare il peso tra le due sponde dell’Atlantico. E a quel punto basta.
Pochi i paesi e pochissimi i collaboratori. L’ideale, diceva il primo ministro britannico di allora, sarebbe stato un incontro limitato ai soli sette Capi di stato o di governo. Fu poi aggiunto un collaboratore per ciascuno, che venne chiamato «sherpa» come le guide himalayane, nella convinzione che se una vetta da scalare è alta, una guida può essere utile, ma è meglio che sia uno del luogo e meglio ancora se parla male la nostra lingua. I risultati dei G7 di allora non richiedevano laboriosi testi scritti o decisioni pubbliche formali. Erano un confronto di posizioni, una ricerca di linee di indirizzo per affrontare in modo coordinato alcuni dei grandi problemi internazionali del momento.
Come è accaduto che un simile strumento pragmatico e snello si sia trasformato nell’immensa macchina politica e mediatica dei vari G attuali, che si muove in ogni dimensione, con diversi formati e con tutta una galassia di inviti e convocazioni accessorie? Un poco hanno contribuito i no global; inventando per i G7 un ruolo decisionale che non avevano. In parte, evidentemente, è il frutto inevitabile della globalizzazione e del policentrismo mondiale. Ma è soprattutto il frutto di un equivoco, che si è prodotto quando il G7 è stato allargato alla Russia nel presupposto che con il dissolvimento dell’Urss la Confederazione Russa avrebbe condiviso al 100 per cento tutte le posizioni e i valori del mondo occidentale. Così non è. La Russia è un partner indispensabile e prezioso con il quale, come vediamo in questi giorni, si negozia, ma con il quale sussistono anche posizioni di fondo che sono molto distanti. Da strumento di concertazione e raccordo, il pianeta del G8 che dopo la Russia ha inglobato altri paesi, anzi interi altri continenti, è diventato un foro di negoziazione globale che in teoria aspira a disciplinare l’intero stato del mondo. Cioè una specie di Onu senza regole scritte dove si parla e si discute di tutto, dall’ambiente (forse il tema più arduo in assoluto), alla finanza, alle crisi regionali, partendo quasi sempre da punti di vista opposti. Questo spiega come mai al G8 dei ministri degli Esteri di Trieste fossero giunte – lo dice chi le ha contate – qualcosa come quaranta delegazioni.
Questo spiega anche come mai gli ordini del giorno delle riunioni si allunghino all’infinito mentre poi l’unanimità, malgrado gli sforzi della presidenza (e da parte italiana l’impegno non manca), si trova più che altro su affermazioni di carattere generale.
Nulla di male, in fondo. Parlarsi, anche quando non si conclude, è sempre meglio che combattersi. Ma siamo certi che il vecchio G7, che metteva insieme alcuni paesi realmente vicini nell’ispirazione di fondo e nella gran parte dei loro interessi, non possa tornare a essere utile? Lasciando che il G8, o comunque si chiami, continui ad allungarsi all’infinito?