«… Non vi sono alternative alla soluzione politica ed essa deve andare di pari passo con il processo umanitario, e con un cessate il fuoco generalizzato….È impensabile che Bashar al-Assad resti al potere…È necessario che l’opposizione partecipi alla Conferenza di pace di Montreux-Ginevra in modo coordinato e il più inclusivo possibile….Una sua non-partecipazione sarebbe una vittoria del regime di Assad e, soprattutto, non avvierebbe quel processo di pace, difficile e dai tempi medio-lunghi, finalizzato alla formazione di un governo di transizione con pieni poteri».
Questi concetti, esternati dal nostro ministro degli Esteri all’ultima riunione a Parigi degli “amici della Siria” sono pillole di ragionevolezza e saggezza tanto condivisibili quanto contrastanti con le condotte che hanno determinato la dinamica della crisi siriana, trasformatasi da rivolta in guerra civile e poi guerra settaria in una guerra civile multipolare. Che chiamano in causa i diretti protagonisti non meno che gli attori regionali e internazionali che, con le rispettive agende e le loro opacità, hanno esaltato le autoctone spinte divaricanti in seno alle forze di opposizione, interne ed esterne alla Siria; hanno propiziato l’inserimento sempre più invadente e contrastato delle milizie salafite e qaidiste che da iniziale fattore di freno al sostegno militare occidentale si è trasformato in minaccia terroristica di portata regionale. Hanno consentito al regime di Assad di riguadagnare terreno sul versante militare e di trarne un utile dividendo anche politico. Hanno in definitiva contribuito a portare il paese in un labirinto conflittuale nel quale è arduo intravvedere le praticabili vie d'uscita, ingombre come sono dai morti, dagli sfollati, dalle macerie, dall’odio e dalla disperazione e dalla paura. E in un terreno su cui si stanno cinicamente giocando i nuovi equilibri di potere e d’influenza, anche di carattere settario, dell’intera regione.
La Conferenza di Montreux-Ginevra si apre su questo sfondo tutt’altro che incoraggiante ma nel quale la stanchezza delle parti in causa, la frustrazione per l’ormai tramontata prospettiva di una svolta decisiva a favore dell’una o dell’altra parte e la crescente consapevolezza del favore che questo stallo sta rendendo alle agende dei gruppi salafiti e qaidisti, possono rivelarsi fattori decisivi o comunque molto rilevanti nel propiziare una maggiore convergenza verso una via d’uscita negoziata.
Questo è certamente vero per l’opposizione o meglio per una parte importante delle forze di opposizione dove i fattori di stanchezza e di frustrazione, accentuati dalle divisioni interne, dal troppo a lungo sofferto deficit di sostegno militare esterno e, da ultimo, dalle forti pressioni esercitate dagli “amici della Siria” in un mix di minacce e di assicurazioni, sono stati decisivi nella coraggiosa decisione della Coalizione nazionale e di diversi gruppi combattenti di partecipare alla Conferenza.
Penso che al di là delle apparenze lo sia anche per Assad che, seppure uscito dall’angolo in cui si trovava grazie all’accordo sugli arsenali chimici, la marcia indietro operata da Washington sul fronte militare e il cospicuo sostegno militare di Mosca e Teheran, complice Hezbollah, cerca di giocare la parte dell’attore protagonista, ma non può non essere consapevole del fatto che sulla sua sopravvivenza politica, e non solo politica, incombe la spada di Damocle di una marginalizzazione internazionale e di una dipendenza esterna sempre più scomoda. E imbarazzante di fronte alla vasta platea dei partecipanti alla Conferenza.
Mosca lo sta assecondando alzando la posta, non solo ribadendo il suo appoggio incondizionato e lasciando filtrare immagini di rifornimento di armi, ma anche attraverso proposte volte a spostare l’attenzione dal tema del governo di transizione alla priorità della guerra, alla minaccia terroristica, a opzioni di cessate il fuoco e di corridoi umanitari che pure costituiscono capitoli importanti dell’agenda di Ginevra II. Penso tuttavia che Mosca non voglia mettere a repentaglio le sue ambizioni geo-politiche regionali, irrobustite dai suoi interessi economico-commerciali, puntando tutte le sue carte su una tetragona difesa della continuità di Assad escludente opzioni di “transizione” in cui vi sia posto per il suo regime, ma non necessariamente per Assad.
Questo margine di flessibilità è legato naturalmente anche alla linea di condotta di Teheran, certo indisponibile a perdere la Siria, tessera cruciale del suo mosaico d’influenza nella regione in sofferenza anche sul versante iracheno per la poco accorta politica del premier iracheno Maliki. Ma si può realisticamente ipotizzare che la Teheran di Rouhani voglia lasciarsi aperto un qualche varco di disponibilità a trattare se ciò risultasse remunerativo in chiave di recupero di immagine e di credibilità anche rispetto al negoziato sul nucleare (e sugli umori del Congresso americano) che entra proprio questa settimana nel count down dei sei mesi dell’intesa “preliminare” del novembre scorso.
In questa logica si spiega del resto l’invito a partecipare alla Conferenza esteso all’Iran da Ban Ki Moon sulla base di una sua supposta adesione a Ginevra I. E bene ha fatto Washington a pretendere un’esplicita conferma al riguardo, forte del contesto di ritrovata coesione con gli “amici della Siria”, ivi compresa l’Arabia Saudita - sponsor del leader della Coalizione siriana e in grado, più di altri, di decifrare l’agenda dei gruppi estremisti – dove opportunamente John Kerry si è recato nei giorni scorsi. Obbligando Ban Ki Moon a una sofferta marcia indietro. L’Iran resta comunque il convitato di pietra a marcare, semmai ve ne fosse bisogno, che la strada della Conferenza è in salita, irta di ostacoli e senza nessuna certezza. Ci vorrà molta abilità e pazienza.