Uno dei problemi che l’offensiva militare turca in Siria ha reso ancora più evidente riguarda la sorte di migliaia di maschi adulti, ma anche di donne e bambini sospettati di aver sostenuto e di esser stati legati al cosiddetto Stato Islamico (IS), prima della sua sconfitta militare sul campo nel marzo del 2019. In Siria questi individui sono stati finora sotto la custodia delle forze a maggioranza curda, in prigioni oppure in campi profughi.
Le Forze Democratiche Siriane (SDF), guidate dai curdi delle Unità di Protezione Popolare (YPG), finora hanno gestito presumibilmente più di una dozzina di prigioni destinate a uomini sospettati di aver fatto parte dell’IS. Secondo le informazioni disponibili, queste prigioni ospitano circa 11.000 detenuti; circa 9.000 di loro proverrebbero dalla stessa area del conflitto (Siria o Iraq), mentre i restanti 2.000 sarebbero originari di oltre 40 Paesi stranieri. Non meno di 800 di questi 2000 foreign fighters jihadisti presenti in Siria sarebbero partiti dall’Europa: i paesi del continente più interessati sono Francia (oltre 400), Gran Bretagna, Germania e Belgio.
I paesi del vecchio continente, nonostante le reiterate esortazioni della Casa Bianca, finora non hanno mostrato di essere attivamente impegnati nel rimpatrio di foreign fighters con passaporto europeo, per ragioni legali, politiche, economiche e, non ultimo, di sicurezza. Finora il rimpatrio in Europa ha riguardato prevalentemente i minori, spesso sulla base di valutazioni caso per caso.
In questo contesto, vale la pena di segnalare, per inciso, l’iniziativa mirata delle autorità italiane, accolta dal plauso degli Stati Uniti, di rimpatriare a giugno 2019 un combattente dello Stato Islamico con doppia cittadinanza marocchina e italiana, Samir Bougana, attualmente in attesa di giudizio in carcere. In ogni caso, il coinvolgimento dell’Italia in questo problema è relativamente marginale, almeno rispetto a molti altri Paesi dell’Europa occidentale, per il numero ridotto di foreign fighters legati in qualche forma al paese (in totale 141, secondo le ultime informazioni ufficiali; di cui, significativamente, soltanto un quinto effettivamente con passaporto italiano).
In aggiunta alle prigioni, le forze a maggioranza curda gestiscono più di una dozzina di campi per le famiglie sfollate, con decine di migliaia di persone, molte delle quali sono mogli o figli di presunti combattenti dello Stato Islamico.
Tra questi siti si segnala il vastissimo campo profughi di al Hol (a circa 60 km dal confine turco, oltre i confini della “zona cuscinetto” fissata dai turchi), che ospita circa 70.000 persone. Le condizioni di vita così come gli atteggiamenti e comportamenti ispirati dall’estremismo jihadista all’interno del campo avevano destato grande preoccupazione già prima della recente offensiva turca.
Con l’avvio dell’offensiva militare turca, il timore è naturalmente che i curdi riducano drammaticamente il numero delle guardie in servizio in questi siti, peraltro già esiguo, per destinarle alle attività di difesa contro la Turchia e le milizie a essa alleate, con il rischio di mettere a repentaglio la gestione di queste strutture. Per esempio, secondo fonti curde (smentite, da parte loro, dai turchi), domenica 13 ottobre, circa 800 persone legate allo Stato Islamico sarebbero riuscite a fuggire dall’importante campo di Ain Issa, che ospita circa 13.000 persone (in prevalenza siriane).
Le autorità turche hanno annunciato l’intenzione di costituire una “safe area” di 30 chilometri di profondità nella Siria del nord. Secondo il Dipartimento di Stato USA, circa il 15 per cento degli oltre 10.000 detenuti si trovano in questo lembo di terra. Nondimeno non si può escludere che, come i curdi temono, la Turchia coglierà l'opportunità dell’offensiva militare per superare i confini di questa “zona cuscinetto” e raggiungere aree in cui vi sono più strutture.
Di fronte a questi rischi per le prigioni e per i campi profughi, il Presidente Trump ha chiarito che gli Stati Uniti non interverranno, precisando che sarà ora la Turchia a doversi far carico dei combattenti dell’IS catturati. Finora, tuttavia, Ankara non ha fornito pubblicamente conferme circa l’intenzione di assumersi fattivamente questo impegno. Secondo alcune fonti recenti, le milizie locali alleate della Turchia avrebbero addirittura già liberato intenzionalmente prigionieri affiliati allo Stato Islamico.
La settimana scorsa la Casa Bianca aveva affermato che gli Stati Uniti si sarebbero limitati a prendere direttamente in consegna i prigionieri dell’IS di maggiore pericolosità. In particolare, Trump aveva confermato che due importanti militanti britannici dell’organizzazione jihadista, El Shafee Elsheikh e Alexanda Kotey, erano già stati trasferiti fuori dalla Siria dalle forze speciali statunitensi. I due sono accusati di far parte di un gruppo di quattro militanti dell’IS, ribattezzato i “Beatles” per il loro accento britannico, che hanno torturato e ucciso ostaggi occidentali del sedicente “Califfato”.
Secondo fonti americane, prima dell’offensiva turca, le forze armate di Washington stavano discutendo con le controparti curde il trasferimento dalle seconde alle prime di circa 50 militanti di alto livello dell’IS. Ma al momento questo passaggio di consegna appare sempre più complicato per ragioni di carattere operativo dovute alle difficili condizioni sul campo, ma non meno di carattere squisitamente politico: se da un lato, le forze statunitensi, dopo il ritiro dalla Siria ordinato da Trump, potrebbero non essere più in grado di prendere materialmente in consegna questi individui nel nord del Paese, dall’altra parte, occorre anche mettere in conto che i curdi non siano più disponibili a cooperare con Washington, dopo esser stati improvvisamente abbandonati dall’alleato, e tanto più dopo esser stati indotti dalle mutate circostanze a stringere un accordo con il regime di Damasco.
Non si può escludere che alla fine sia proprio il governo siriano di Assad a prendere il controllo di alcune prigioni nel nord del paese, nel contesto di questa nuova alleanza con le forze curde, ma al momento non esistono riscontri chiari a tal proposito né tantomeno sono disponibili indicazioni relativi ai tempi e alle modalità con cui questo eventuale trasferimento di responsabilità potrebbe aver luogo.
Lo “scenario peggiore” sarebbe rappresentato dalla decisione estrema delle forze curde, abbandonate dall’alleato americano, di rilasciare deliberatamente le persone che sono state finora sotto la loro custodia. Nella giornata di ieri Trump ha presentato come già reale questo scenario (al momento non supportato da riscontri inequivocabili sul campo), provocando le smentite da parte curda. A distanza di alcune ore le autorità turche hanno espresso la stessa posizione.
Da parte sua, il Presidente USA, nell’intento di rassicurare il pubblico americano, ma anche di criticare nuovamente l’inerzia di molti paesi europei su questo fronte, ha rimarcato che in ogni caso i foreign fighters fuggirebbero verso l’Europa.
Come detto, la tenuta delle prigioni gestite dalle forze a maggioranza curda è ora ancor più precaria di quanto lo fosse prima dell’avanzata turca. Alcuni giornalisti e operatori umanitari hanno avuto accesso ad alcune di queste prigioni, spesso edifici sovraffollati, originariamente destinati ad altre funzioni (come scuole e uffici pubblici). Tuttavia, nel complesso vi sono, comprensibilmente, poche informazioni disponibili al pubblico su queste strutture; d’altronde, è evidente che l’IS, che è ancora attivo nella regione nonostante il crollo del suo “Califfato”, avrebbe tutto l’interesse ad avere maggiori dettagli su queste strutture per tentare di liberare i membri dell’organizzazione che vi sono detenuti.
Al momento, l’IS non ha ancora diffuso rilevanti dichiarazioni ufficiali sull’offensiva militare turca (potrebbero arrivare nei prossimi giorni), ma è evidente che intende cogliere questa opportunità. Nei giorni scorsi ha già realizzato e rivendicato degli attacchi in aree controllate dai curdi, come la città di Qamishli, dove negli ultimi anni aveva colpito di rado.
Inoltre, come alcuni esperti hanno notato, la liberazione dei propri combattenti detenuti nelle prigioni curde, una volta raccolte tutte le informazioni necessarie e aver studiato adeguati piani di azione, rappresenta verosimilmente un obiettivo prioritario per l’organizzazione jihadista. Il gruppo armato si è peraltro già impegnato in simili operazioni in Iraq e Siria negli anni precedenti, anche quando operava sotto altri nomi.
L’intento della liberazione delle donne e dei bambini nei campi, per quanto simbolicamente non trascurabile (tanto da essere espressamente menzionato dal leader Abu Bakr al-Baghdadi nel suo ultimo discorso audio di settembre 2019), presumibilmente al momento appare meno pressante.
In conclusione, è evidente che l’offensiva turca rende ancora più urgente il problema, finora non risolto e spesso nemmeno affrontato adeguatamente, della gestione dei foreign fighters jihadisti in Siria, compresi quelli che sono partiti dall’Europa.