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Daily Focus
Siria: il virus e la guerra (quella vera)
30 marzo 2020

Nove anni di guerra e ora anche la pandemia da Covid-19. Non c’è pace per la Siria, piegata dal conflitto, in cui si manifestano i primi casi di coronavirus. 

 

Nove anni di guerra, almeno 400.000 morti, infrastrutture al collasso e combattimenti ancora in corso. In un’economia martoriata dal conflitto e dalle sanzioni economiche l’arrivo della pandemia può trasformarsi in una catastrofe di dimensioni spropositate. Da oggi anche la Siria ha il suo primo decesso ufficiale da coronavirus. Si tratta di una donna, secondo il ministero della Salute, arrivata in ospedale con sintomi evidenti e già in gravi condizioni. Un solo decesso basta per far scattare l’allarme. Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), un focolaio epidemico su vasta scala potrebbe avere effetti catastrofici per il  paese, dove dal 2011 ad oggi oltre metà degli ospedali sono stati distrutti e quasi un milione di persone – solo negli ultimi mesi – sono sfollate a causa del conflitto. Se l’epidemia dovesse diffondersi nella regione di Idlib, ultima roccaforte dei gruppi armati antigovernativi e dove ancora infuriano i combattimenti o, peggio, nei campi profughi, sarebbe impossibile fermarla poiché il sovraffollamento è tale da rendere impensabili le misure di distanziamento sociale utilizzate per contenere il contagio.  

 

Lockdown per un paese in guerra? 

Anche se fino a poche settimane fa il governo minimizzava la portata dell’emergenza, dal 13 marzo le autorità di Damasco hanno imposto il lockdown e misure stringenti per evitare il diffondersi del contagio. Allo stato attuale, ufficialmente, in Siria si registrano nove persone positive al Covid-19, anche se medici e testimoni parlano di molti più casi. Alle attività commerciali è stato ordinato di chiudere dalle sei di pomeriggio alle sei di mattina, mentre scuole e università sono chiuse dalla scorsa settimana. Fino al 16 aprile c’è il divieto di spostarsi da una provincia all’altra e all’interno della stessa provincia, se non per motivi essenziali. Il governo provvede alla distribuzione del pane con auto che percorrono le strade delle città. Tutti i lavori pubblici sono sospesi fino a nuovo avviso, mentre è vietato l’ingresso di stranieri nei cui paesi si registrano casi di contagio. I cittadini siriani provenienti dai paesi a rischio sono messi in quarantena domiciliare. Dopo 10 anni di guerra, secondo l’organizzazione Physicians for human rights, solo la metà degli ospedali e delle strutture sanitarie preesistenti sono funzionanti, mentre circa il 70% del personale medico e paramedico è morto o ha lasciato il paese.  

 

 

 
Situazione esplosiva nei campi profughi? 

A preoccupare ancora più del resto del paese, è la situazione nella provincia di Idlib, teatro dell’ultimo ‘regolamento di conti’ armato tra le truppe del presidente Bashar al Assad, sostenute dalla Russia, e le milizie antigovernative puntellate da Ankara. Prima dell’inizio dell’offensiva, cominciata agli inizi di dicembre 2019, vivevano nella zona circa tre milioni di persone. Da allora circa un milione sono fuggiti andando ad affollare campi profughi già allo stremo, lungo la frontiera con la Turchia. Da dicembre ad oggi, secondo l’Oms, l’aviazione siriana ha bombardato 84 ospedali, in una tattica mirata contro i presidi sanitari che costituisce un crimine di guerra. Secondo il New York Times, i medici locali si aspettano oltre mezzo milione di contagi e tra le 100.000 e le 200.000 vittime. Almeno 10.000 persone, inoltre, necessiteranno di respiratori che, attualmente, sono soltanto 157. 

 
Cessate-il-fuoco contro il virus?  

Dopo l’appello diffuso nei giorni scorsi dalle Nazioni Unite, anche l'Unione Europea ha chiesto un cessate-il-fuoco in tutto il paese per contribuire a garantire una migliore risposta alla pandemia di coronavirus. "Il recente cessate-il-fuoco a Idlib rimane fragile. Deve essere mantenuto ed esteso a tutta la Siria", ha detto un portavoce della Commissione europea, in una nota. "La cessazione delle ostilità nel paese è di per sé importante, ma è anche una condizione preliminare per contenere la diffusione del coronavirus e proteggere una popolazione già esposta a conseguenze potenzialmente disastrose, in particolare nella zona di Idlib, dove esiste un numero significativo di rifugiati". 

 
E la comunità internazionale? 

Alle prese con il contenimento della pandemia ed egoismi nazionali in ordine sparso, l’Unione Europea non sembra in grado (o interessata?) a volgere lo sguardo verso la bomba ad orologeria che ticchetta nei campi profughi siriani. E mentre la tregua sul terreno risulta una parola vuota, le grandi potenze, da Washington a Mosca e Pechino, sono troppo impegnate ad agitare le rispettive propagande per imporre, de facto, un cessate-il-fuoco. Ma se l’inazione della comunità internazionale nei nove anni di guerra è rimasta – sostanzialmente – impunita, stavolta le cose potrebbero andare diversamente e c’è già chi ipotizza che proprio dai campi profughi potrebbe partire un’ondata di ritorno del virus Covid-19, pronta ad investire l’occidente. Forse era questo che intendevano quelli che, inascoltati, in questi anni ripetevano: “Dalla guerra in Siria non si salverà nessuno, neanche noi”. Non abbiamo agito allora, né quando, poco tempo fa, i bambini morivano assiderati nelle tende. Oggi l’immagine della pandemia nei campi profughi ci lascia senza parole. Chissà cosa direbbero loro se sapessero che qui da noi qualcuno il ‘social distancing’ lo chiama guerra. 

 

Il commento 

Di Matteo Colombo, Associate Research fellow Area Mena, ISPI

 

L’emergenza Covid19 sta mettendo in crisi il sistema ospedaliero di diversi paesi, anche quelli più preparati. È evidente che la Siria è in una situazione molto precaria per affrontare una possibile emergenza sanitaria. Un rapporto di Physicians for Human Rights ha contato circa 595 attacchi a strutture sanitarie dall’inizio del conflitto e l’organizzazione mondiale della sanità stima che soltanto il 50% circa degli ospedali sia pienamente funzionante. 

In tale situazione molto difficile, un’epidemia potrebbe diffondersi con grande facilità, anche per le oggettive difficoltà di molti siriani ad auto-isolarsi. Si stima che circa un siriano su due abbia dovuto abbandonare la propria casa a causa del conflitto, e diversi cittadini di questo paese vivono in una situazione igienica molto precaria. A questi si aggiungono diverse persone che si trovano in campi profughi molto affollati ai confini della Siria, come gli 80.000 che si trovano nel campo di Za’atari in Giordania. 

 

* * *

 

A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications)

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