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Commentary

Siria: le ambiguità dietro la battaglia di Idlib

Eugenio Dacrema
10 settembre 2018

La tragedia che potrebbe consumarsi a Idlib nei prossimi giorni è il prodotto delle più profonde ambiguità che si sono trascinate in questa interminabile fase finale della guerra civile siriana. Dall’inizio del 2017 a oggi la piattaforma di Astana, fondata dai tre principali protagonisti esterni del conflitto Russia, Turchia e Iran, ha infatti creato una cornice per una gestione condivisa delle negoziazioni e delle operazioni sul campo basata su tre punti. Primo, la creazione delle cosiddette zone di de-escalation (Homs-Hama, Daraa’, Ghouta, e Idlib) avrebbe consentito una serie di riconciliazioni locali che sarebbero poi confluite in un processo a livello nazionale. Secondo, la Turchia sarebbe assurta progressivamente a sponsor unico dell’opposizione, di fatto tagliando fuori e facilitando l’annichilimento di quei gruppi legati ad altri stati sostenitori dell’opposizione come Arabia Saudita e Qatar e, soprattutto, di quelle formazioni legate alla galassia jihadista internazionale. Terzo, la Russia si sarebbe fatta garante degli interessi di tutte le parti in causa, dal regime, passando per l’alleato iraniano, la Turchia, e includendo perfino Israele, preoccupato per l’espansione di organizzazioni legate a Teheran nel sud.

Le contraddizioni non hanno però tardato ad affiorare. Innanzitutto, le de-escalation zones, da base di partenza per una riconciliazione nazionale, si sono presto rivelate un puro espediente tattico sfruttato dal regime per poter concentrare le proprie scarse risorse militari su un fronte alla volta. Invece di riconciliazioni, ciò che ne è scaturito sono state tregue e accordi di ricollocamento dei miliziani attivi nelle varie aree e, soprattutto, di centinaia di migliaia di civili più o meno direttamente legati all’opposizione verso la provincia di Idlib, ultima zona di de-escalation rimasta integra ad oggi. Ricollocamenti che hanno in poco più di un biennio trasformato la provincia di Idlib da regione periferica abitata da circa 800 mila abitanti alla più grande “metropoli” di rifugiati del mondo, abitata da quasi 3 milioni di persone le quali, se anche Idlib dovesse cadere, non avrebbero una “seconda Idlib” verso cui scappare. Una nuova ondata di profughi verso nord è infatti fra le principali preoccupazioni della Turchia, paese che ospita già oltre 3 milioni e mezzo di siriani. Ma Ankara non è solo preoccupata di dover far fronte all’ennesima ondata incontrollabile di fuggiaschi dalla guerra. Dall’inizio dell’anno truppe turche sono attive all’interno del territorio di Idlib, con postazioni militari d’osservazioni poste intorno all’intera provincia. L’obiettivo della Turchia è quello di isolare e dividere i gruppi più estremisti che dalla sua conquista controllano la città, a cominciare dal Hay’at Tahrir al-Sham, organizzazione di ispirazione qaedista, e permettere a un cartello di forze “moderate” e controllate da Ankara di prenderne il controllo. Un obiettivo rimasto finora incompiuto e che potrebbe essere definitivamente travolto dall’imminente offensiva del regime.

Ma se è soprattutto la Turchia che dalla potenziale caduta di Idlib rischia di più – sia nella veste di sponsor, umiliato, dell’opposizione, sia in quella di paese rifugio per una nuova ondata di profughi – è il ruolo di mediatore quasi infallibile di Mosca che è ora sotto la luce dei riflettori. Da una parte i vertici russi sanno bene di non poter negare al regime una simbolica vittoria finale che solo la presa di Idlib può garantire. Assad ha bisogno di poter presentare all’opinione pubblica lealista la caduta dell’ultimo bastione dell’opposizione prima di sedersi, da una posizione di forza, a due tavoli ben più complessi: lo status finale nel nord-est – oggi controllato dalle Unità di protezione popolare (Ypg) curdo con l’appoggio americano – e, soprattutto, la questione di Afrin e del triangolo Azaz-Al-Bab-Jarablous, occupati dalle forze turche tra il 2017 e l’inizio del 2018. A Mosca sanno che soprattutto quest’ultimo nodo sarà difficile da sciogliere e che il nord della Siria rischia di ritrovarsi nel lungo termine sotto protettorato turco, in una situazione simile al nord di Cipro, e che, proprio per questo, non possono negare ad Assad una vittoria “finale” ad Idlib. Ne va della credibilità del regime e, indirettamente, della credibilità di Mosca, che dall’intervento in Siria nel 2015 sta cercando di proporsi ai regimi autoritari del Medio Oriente come un alleato più affidabile e determinato degli Stati Uniti. Dall’altra parte, però, umiliare Ankara significa rischiare di rispedire Erdogan nelle braccia di quell’Occidente, dal quale in questi ultimi anni il presidente turco sta cercando infaticabilmente di affrancarsi cercando, finora con successo, la sponda della Russia.

Una quadra difficile, perfino per gli abili strateghi di Mosca, ma che potrebbe trovare una soluzione in una sorta di “offensiva a metà”: una operazione che riporti nelle mani del regime alcune aree strategicamente e simbolicamente importanti, compreso il centro urbano di Idlib, ma che permetta la creazione di una zona cuscinetto sotto il controllo dei gruppi legati ad Ankara. Più difficile a dirsi che a farsi, e le prime dichiarazioni seguite all’incontro del 7 settembre tra Putin, Erdogan e Rouhani non sembrano presagire un compromesso imminente. Aerei russi e siriani hanno già iniziato le prime operazioni sui villaggi più vicini al confine della provincia, ma almeno finora le truppe di terra rimangono immobili. Le chance per un compromesso diplomatico sono quindi ancora aperte; l’unica strada in grado di evitare quello che potrebbe trasformarsi nel più grande massacro del conflitto siriano.

 

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI

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ISPI Senior Advisor

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Siria Assad Idlib Russia
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AUTORI

Eugenio Dacrema
ISPI Associate Research Fellow

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