Lo Stato Islamico (IS) è in Siria. Un’affermazione apparentemente ovvia, ma che, dando un’occhiata alla copertura mediatica dei drammatici eventi mediorientali nell’ultimo anno, appare meno scontata. Una delle più vistose distorsioni che emergono da questa analisi è infatti la grande differenza fra l’attenzione riservata a IS in questi dodici mesi, quasi sempre sulle prime pagine e in cima alla scaletta di giornali e televisioni internazionali, e quella riservata al conflitto siriano, ormai relegato alle pagine interne quando non ignorato completamente. Perfino la mediaticamente glorificata battaglia di Kobane – peraltro ripresa drammaticamente in questi giorni – sembra essere avvenuta in un “non-luogo”. In Kurdistan? A Rojava? Certamente non in Siria. Il conflitto civile siriano – una delle più grandi tragedie umanitarie dal secondo dopoguerra – e l’avanzata del nuovo Califfato secondo i media internazionali sembrano avvenire in due luoghi diversi del pianeta.
Ma IS è in Siria e vi si trova da molto prima che il suo nome finisse nei ripetitori delle reti televisive di tutto il mondo in seguito alla fulminea conquista di Mosul nel giugno 2014. E fin dall’inizio è stato usato a turno dall’una o dall’altra parte del conflitto civile come un utile strumento contro il nemico. Fu Assad a favorirne per primo lo sconfinamento dall’Iraq quando ancora era solo Isi (Islamic State in Iraq), formazione facente capo ad al-Qaida e decimata dalle forze statunitensi e irachene nel 2006-2008). L’estemporanea scarcerazione di un folto gruppo di jihadisti dalle prigioni del regime dopo alcuni mesi dall’inizio delle proteste in Siria aveva avuto proprio lo scopo di favorire una “settarizzazione” della ribellione. Assad aveva dipinto fin da subito gli oppositori scesi in piazza come pericolosi terroristi islamici: bisognava fare di tutto affinché almeno una parte di loro lo diventasse davvero. Abu Bakr al-Baghdadi, leader del gruppo in Iraq, manda allora uno dei suoi luogotenenti, Abu Mohammad al-Julani, a coordinare il “ramo siriano” dell’organizzazione. Siamo all’inizio del 2012. La repressione feroce del regime ha ormai iniziato a generare la reazione violenta degli oppositori, che insieme ad alcuni disertori dell’esercito mandato a reprimerli, fondano i primi nuclei armati dell’opposizione siriana. Il gruppo di al-Julani, inizialmente formato da veterani del jihad internazionale, s'inserisce fra loro e inizia a reclutare sul territorio. Nasce così Jabhat al-Nusra, che da subito si distingue per le sue folgoranti vittorie sul campo contro il regime. Superiore esperienza e addestramento rispetto al resto dei guerriglieri locali. E anche finanziamenti esteri non meglio identificati, ma da ricercare dalle parti del Golfo.
Ma la leadership di Jabhat al-Nusra non perdona ad al-Baghdadi il suo tradimento verso Ayman al-Zawahiri, il leader assoluto di al-Qaida dopo la morte di Osama bin Laden. Nel 2013 Isi si stacca da al-Qaida diventando indipendente e Jabhat al-Nusra si stacca da IS dichiarando la sua continua fedeltà all’anziano Zawahiri.
Al-Baghdadi decide allora che la sua organizzazione deve entrare direttamente in Siria, delle succursali non ci si può fidare. All’inizio del 2013 nasce così Isis (Islamic State in Iraq and Syria) ma per un bel po’ non se ne sente granché parlare. Isis non combatte il regime ma si consolida nell’entroterra delle zone già conquistate dall’opposizione, confrontandosi direttamente coi gruppi moderati o con le milizie curde. E il regime ricambia il favore. Le zone occupate da Isis non vengono praticamente toccate dall’aviazione di Assad che invece si concentra su quelle dove si trovano i gruppi più moderati, quelli sì una seria minaccia contro-narrativa della “guerra agli estremisti” portata avanti dal regime.
Nel frattempo Isis si consolida e si espande. Inizia a macchiarsi di massacri settari e di rapimenti, tra cui quello del gesuita italiano Paolo Dall’Oglio. Occupa Raqqa a spese delle altre forze ribelli e contende alle tribù arabe del deserto orientale e alle milizie curde i principali pozzi di petrolio siriani. Molto di quel greggio, una volta entrato sotto controllo di Isis potrebbe esser stato venduto sottobanco al regime di Damasco, in disperata ricerca di risorse energetiche.
È solo nel giugno 2014 però che l’Isis irrompe nel circuito mediatico internazionale. La presa di Mosul, seconda città dell’Iraq, conferma una volta per tutte la strategia adoperata dall’organizzazione fino a quel momento: crearsi una profondità strategica in Siria per poter preparare un’offensiva in grande stile in Iraq. Operazione pienamente riuscita. Ora Isis, dopo aver proclamato il Califfato e cambiato il suo nome in Stato Islamico, controlla un vasto territorio, numerose risorse e un grande arsenale di armamenti americani.
Da questa nuova posizione di forza le milizie del califfo (questa la carica che al-Baghdadi assegna a se stesso dal pulpito della moschea di Mosul dopo la presa della città) possono insidiare territori prima impensabili sia in Iraq, sia in Siria. In quest’ultima le aree curde del nord diventerebbero presto un boccone prelibato per IS se non fosse per la strenua resistenza delle truppe locali e per le bombe della coalizione internazionale assemblata nel frattempo dagli Stati Uniti per bloccarne l’avanzata.
Ma per il nuovo Califfato, sconfitto a Kobane, fermarsi è impensabile. La sua stessa propaganda e capacità di attrazione dipendono dalla sua abilità di proiettare l’idea di un'espansione inarrestabile e invincibile. E infatti IS rilancia, non più su Kobane, ma sul cuore stesso del paese: Palmira. È l’opposizione, ormai dominata dall’ex succursale Jabhat al-Nusra, a servirsi stavolta di IS contro il regime: i ribelli attaccano Idlib nel nord e Dara’a nel sud, mentre IS si porta a 200 chilometri da Damasco.
Assad ora è sulla difensiva. Il suo esercito e le sue milizie non hanno più uomini e reclutarne altri vuol dire compromettere la fedeltà dell’ultima fetta della popolazione siriana che gli è rimasta fedele. Il regime all’inizio del 2015 ha raggiunto di fatto una crisi strutturale, dimostrata dalla totale incapacità di mettere in atto controffensive efficaci perfino su piccola scala. A Palmira, dicono i testimoni, il suo esercito ha combattuto alcune ore; poi si è semplicemente “liquefatto”. Da marzo si sta consumando quindi un cambiamento cruciale dello “status quo dinamico” che aveva caratterizzato fino a quel momento il conflitto civile siriano. Il regime, assediato su tutti i fronti, è ormai confinato nel lungo corridoio occidentale che da Damasco porta fino alle città della costa passando da Homs. Alcune “sacche” nelle mani del regime rimangono solo Dara’a (nel sud), a Hasakah (nella zona curda a nord) e a Deir ez-Zor (nell’est), le prime due sotto attacco dalla fine di giugno. L’Iran è diventato di fatto la spina che tiene in vita il potere di Assad, attraverso l’invio di armi e milizie sciite da Libano, Iran, Afghanistan e Iraq che stanno trasformando il conflitto in una “guerra santa”, in questo caso sciita, anche dalla parte del regime. In cambio, Damasco sta di fatto progressivamente abdicando alla propria sovranità, concentrando i suoi sforzi militari principalmente nelle zone di maggior interesse strategico per l’alleato iraniano: il confine libanese e il Golan.
I ribelli invece ora sembrano festeggiare. Le avanzate, a sud come a nord, hanno dimostrato una maggiore coesione ed efficacia. A supportarli anche un nuovo flusso di armi e denaro dai loro "client" regionali, in primis Arabia Saudita, Qatar e Turchia, i quali certamente non hanno teso a favorire le formazioni più moderate, ma certamente hanno saputo rendere i propri "client" islamisti i gruppi di gran lunga più efficaci.
Assad perde e i ribelli vincono, quindi? Questo il quadro che sembra passare su buona parte dei (pochi) media che ogni tanto si occupano di Siria e perfino dalle fonti interne dell’opposizione. Già, perché la famosa illusione di IS e della Siria come due luoghi lontani fra loro sembra ormai aver colpito tutti, compresi quelli che dentro il paese questa tragica guerra la combattono sul serio. Ed è così che in queste ore, mentre IS assalta le posizioni del regime ad Hasaka, l’aviazione di Assad bombarda i ribelli a nord di Aleppo in un coordinamento “di fatto” con IS che li attacca via terra.
In questa che sembra una folle illusione collettiva è chiaro come tutto sommato sia al regime che all’opposizione vada bene così. IS in fondo è un “grimaldello” che l’uno può usare di volta in volta contro l’altro. Un “grimaldello” che controlla all’incirca metà del paese.