La convocazione di una Conferenza internazionale sulla Somalia, annunciata dal primo ministro britannico, aveva sollevato grandi aspettative, data la comune volontà di non concedere nuove proroghe alle Istituzioni transitorie somale, in scadenza nell’agosto prossimo. Gli adempimenti stabiliti dagli accordi di Kampala sono rimasti, infatti, sulla carta, rendendo del tutto irrealistica la possibilità di svolgere referendum costituzionali o elezioni.
Punto di svolta della nuova strategia doveva essere lo sviluppo del cosiddetto approccio “dual-track”, spostando il focus dal sostegno dato dalle istituzioni centrali (litigiose, corrotte e inefficienti) alla collaborazione con le entità locali, cercando di rafforzare la stabilità delle aree “pacificate” e promuovendo, così, una riconciliazione dal basso. A questo fine, era prevista perfino l’istituzione di uno specifico “trust fund”, destinato al sostegno diretto di questi processi locali.
Per rendere effettiva una strategia di questo tipo, sarebbero però necessarie almeno due condizioni. La prima consiste nell’evitare il rischio che una giusta politica di “decentramento” apra la strada (come sta già accadendo) a una miriade di richieste di “autonomia”, rivendicate da capetti locali desiderosi di diventare presidenti di qualcosa, sfruttando la frammentazione clanica e/o l’appoggio (non certo disinteressato) dei paesi confinanti. La seconda richiede di non limitare il sostegno alle sole aree “liberate”, ma di adattarlo, in modo incrementale, a tutte le entità disposte a dialogare e a corrispondere, anche gradualmente, a determinati standard.
Su questo punto cruciale non c’è stata coesione fra i diversi attori internazionali. Per molti è ancora inaccettabile l’idea di affrontare il fenomeno al-Shabaab in termini diversi da quelli puramente militari. Così si rischia, paradossalmente, di vanificare le potenzialità che proprio i successi di Amisom (African Union Mission in Somalia) avevano creato. Gli al-Shabaab, infatti, sono stati indeboliti dalle sconfitte subite sul campo e hanno perso consenso a causa delle posizioni assunte durante la carestia. Per rendere irreversibile questo cambiamento occorre però che nelle zone “liberate” si renda visibile un’azione di governo capace di migliorare le condizioni delle popolazioni.
Se queste, invece, resteranno ostaggio di milizie claniche travestite da governo legittimo, il problema politico non sarà certo risolto. In questo caso, anzi, un certo grado di consenso per gli al-Shabaab sarà destinato a durare (specie se durerà la presenza di truppe keniote ed etiopiche) e le sconfitte militari non faranno altro che accelerare (come avvenuto in passato) la loro modificazione genetica verso la sola opzione terroristica, per di più su scala regionale.
Tutto ciò limita fortemente le possibilità di una vera svolta nella Conferenza di Londra del 23 febbraio, nonostante la positiva attenzione per la presenza di così tante delegazioni di alto livello. Ciò che possiamo attenderci è l’approvazione di alcuni principi generici per orientare l’appoggio alle realtà territoriali (senza la previsione di strumenti specifici), la costituzione di un “Joint Financial Management Board” (per contrastare l’uso distorto del supporto internazionale) e un accresciuto impegno finanziario per la lotta alla pirateria e per l’aumento (fino a 17.000 unità) delle truppe Amisom.
Una disparità evidente fra l’ampiezza dello sforzo militare e la carenza di un’adeguata strategia politica e diplomatica. Al confronto, appare molto più efficace la strategia dei gruppi somali. Felici di incassare il sostegno per l’ennesima “road map” (l’accordo di Garowe) che prevede un’ennesima Assemblea costituente per l’elezione di un ennesimo Parlamento (dimezzato ma, questa volta, “bicamerale”). Senza assicurare l’esistenza di condizioni minime perché sia garantita la rappresentatività degli “eletti” e degli “elettori”. In attesa della prossima Conferenza internazionale. Che la Turchia, del resto, ha già convocato a Istanbul per il mese di giugno.