Lo scorso febbraio il Primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha indetto elezioni anticipate. Alla testa di un governo di minoranza che controllava meno di un quarto dei parlamentari, quello di Sánchez era un mandato “a termine” che alla fine è durato meno di un anno.
Dal voto di domenica 28 aprile i socialisti sono usciti vincitori, ma senza maggioranza in parlamento. Come già accaduto nel suo mandato precedente, Sánchez e i socialisti dovranno quindi trovare alleati per poter governare. I deputati di Unidos Podemos però non basteranno più e potrebbe servire l’appoggio esterno dei partiti regionalisti baschi e catalani. Saranno proprio questi ultimi i più difficili da convincere ad entrare in coalizione, vista la centralità che la questione catalana sta occupando nel dibattito politico spagnolo.
Alle urne per la terza volta in meno di cinque anni, la Spagna continua dunque a presentare un panorama politico fortemente frammentato. Con l’incognita di quanto i risultati delle elezioni nazionali si rifletteranno sulle europee di maggio, Madrid sembra proseguire una tendenza alla polarizzazione iniziata nel 2015 e che oggi è ulteriormente complicata dalla crescita della destra radicale di Vox. (Ultimo aggiornamento: 29 aprile)
Perché Madrid torna alle urne?
A soli dieci mesi dal giuramento del governo guidato dal socialista Pedro Sánchez, la Spagna torna al voto anticipato domenica 28 aprile. Il governo di minoranza del Partito socialista operaio spagnolo (PSOE) ha infatti perso da febbraio il sostegno esterno di due dei partiti su cui contava dal giugno 2018. Lo scontro si è consumato attorno all’approvazione della legge di bilancio, quando la Sinistra repubblicana di Catalogna (ERC) e il Partito europeo democratico catalano (PDeCAT) hanno votato contro il governo come ritorsione per non aver fatto significativi passi avanti sul tema dell’indipendenza della Catalogna.
Come sottolinea Gilberto Bonalumi, il quadro politico risulta piuttosto complicato già da alcuni anni. Nel dicembre 2015, dalle urne spagnole uscì il parlamento più frammentato e diviso dai tempi del ritorno alla democrazia. Mesi di negoziati tra il Partito popolare (PP), il PSOE e la sinistra di Podemos (oggi Unidos Podemos, UP) portarono a un nulla di fatto, rendendo inevitabile lo scioglimento anticipato delle Cortes Generales e la convocazione di nuove elezioni per il giugno 2016. Anche in questo caso, nessun partito riuscì a ottenere la maggioranza dei seggi e il Partito popolare riuscì a formare un governo soltanto grazie all’astensione dei socialisti. Il governo del PP guidato da Mariano Rajoy venne però a sua volta sfiduciato nel giugno 2018 dopo lo scoppio del “caso Gürtel”, uno scandalo di corruzione, riciclaggio ed evasione fiscale che ha investito i vertici dei popolari, aprendo quindi la strada all’esecutivo di Sánchez (per la Costituzione spagnola vale il sistema della sfiducia costruttiva, per cui un governo cade solo se il parlamento vota contestualmente la fiducia a un altro esecutivo).
La breve vita del governo Sánchez è stata però complicata dalla necessità di conservare il supporto esterno di diversi partiti regionali e autonomisti, sfida resa più difficile dalla storica sconfitta dei socialisti alle elezioni regionali in Andalusia dello scorso dicembre e dalle continue tensioni attorno all’indipendenza della Catalogna. In vista delle prossima tornata elettorale due questioni hanno tenuto banco nei dibattiti politici: da un lato la crescita delle destre, che in Andalusia hanno strappato per la prima volta la maggioranza ai socialisti; dall’altro la profonda spaccatura che la questione indipendentista catalana ha provocato nella società spagnola.
Quanto pesa la questione catalana?
Lunedì 22 aprile, durante il primo dibattito televisivo tra i leader dei quattro partiti principali – PP, PSOE, Ciudadanos e Podemos (mancava la destra di Vox, che non avendo deputati nel parlamento uscente è stata esclusa dal dibattito) – è stata proprio la questione catalana a scatenare lo scontro più acceso. Sánchez, che ha sempre mantenuto una posizione relativamente aperta verso alcune richieste degli indipendentisti, ha parlato della necessità di arrivare a una “coabitazione” tra Catalogna e Spagna; al contrario, i due partiti di centrodestra hanno promesso il pugno duro contro Barcellona. D’altra parte sia il PP sia Ciudadanos arrivano alle elezioni dopo una profonda trasformazione interna in cui la questione catalana ha giocato un ruolo determinante.
I partiti della destra spagnola sono infatti in competizione tra loro per raccogliere la fiaccola del nazionalismo spagnolo contro le aspirazioni indipendentiste della Catalogna: mentre Vox propone l’abolizione del governo locale tout court, PP e Ciudadanos hanno inseguito il neonato partito spostandosi più a destra, proponendo la revoca dell’autonomia regionale. La questione catalana sembra avere avuto, per la destra spagnola, effetti simili a quelli che il dibattito sull’immigrazione ha avuto sulle destre di altri Paesi europei.
Per contro, i socialisti non possono rischiare di alienarsi totalmente l’elettorato catalano chiudendo la porta a tutte le richieste di Barcellona. Storicamente infatti la prestazione del PSOE alle elezioni nazionali è dipesa fortemente dai risultati ottenuti nei collegi dell’Andalusia e della Catalogna. La sconfitta dei socialisti in Andalusia ha messo in evidenza il vero rischio dell’astensionismo o della dispersione dei voti della sinistra: l’affermazione della destra. In Andalusia PP e Ciudadanos ci sono riusciti ma dovendo comunque allargare l’alleanza fino a includere Vox. Ciò che i dirigenti del PSOE sembrano sperare a questo punto è che l’elettorato catalano opti per il voto utile e decida di concentrarsi sui socialisti.
Il quadro è ulteriormente complicato dai risvolti giudiziari della questione catalana. La Corte suprema spagnola ha infatti respinto la richiesta di scarcerazione di sei dei dodici leader catalani sotto arresto preventivo dal 2017, dopo il referendum sull’indipendenza. La richiesta era stata avanzata dai carcerati per poter partecipare alle elezioni nazionali di aprile e a quelle locali ed europee che si svolgono in contemporanea il 26 maggio. Tra loro ci sono l’ex vicepremier catalano Oriol Junqueras e Jordi Sànchez, leader dell’Assemblea nazionale catalana (ANC), un’importante associazione indipendentista. Diversi altri vertici del movimento indipendentista, tra cui l’ex premier catalano Carles Puigdemont, rimangono invece all’estero, in esilio autoimposto in Belgio, Gran Bretagna e Svizzera. Sulla futura stabilità politica spagnola peserà dunque certamente l’esito del processo ai dodici indipendentisti catalani, in carcere in attesa di processo per ribellione e malversazione di fondi pubblici, con la possibilità di una condanna complessiva a quasi 200 anni di carcere.
L’ingovernabilità è destinata a continuare?
In Spagna il bipartitismo è ormai un ricordo del passato. L’alternanza al potere tra socialisti e popolari è la caratteristica che ha contraddistinto più di ogni altra il sistema politico spagnolo dopo la fine della dittatura franchista nel 1976. Ma la crisi economica e l’emergere di partiti nuovi, almeno inizialmente “antisistema”, da Ciudadanos a UP, affiancati nell’ultimo anno dalla destra di Vox, hanno portato a una frammentazione che rende sempre più complicato formare maggioranze di governo.
Una prova dell’instabilità generata da questa frammentazione è il fatto che, di recente, il tempo che trascorre tra un’elezione e l’altra si sia più che dimezzato. A fronte di una legislatura che arriva a scadenza naturale ogni quattro anni, tra il 1989 e 2015 si è votato una volta ogni 3,4 anni, mentre quella del 28 aprile sarà la terza elezione in meno di cinque anni (dunque si sarà votato una volta ogni 1,4 anni).
Guardando agli ultimi sondaggi, la difficoltà di formare coalizioni stabili di governo sembrerebbe destinata a ripetersi anche nella prossima legislatura. Dopo le elezioni di aprile nessun partito dovrebbe disporre di un numero di seggi sufficiente a governare da solo, e al momento le uniche due alternative plausibili che consentirebbero di superare i 176 seggi necessari per avere una maggioranza di governo sarebbero una instabile grande coalizione tra popolari e socialisti o un’alleanza tra socialisti e Ciudadanos. Sembrerebbe invece avere meno chances un’alleanza tra “sinistre”, ovvero tra socialisti e Unidos Podemos, così come una coalizione tra “destre” (popolari, Ciudadanos e Vox).
Quest’ultima eventualità era stata paventata da diversi analisti dopo che lo scorso dicembre le elezioni in Andalusia si erano concluse con una forte ascesa di Vox, che a gennaio ha portato per la prima volta al governo le destre in una regione storicamente governata dai socialisti. Il governo regionale andaluso è infatti oggi composto dai popolari e da Ciudadanos, e gode del fondamentale appoggio esterno proprio da parte dell’estrema destra di Vox. Oltre allo scoglio del consenso popolare, una eventuale “coalizione delle destre” a livello nazionale si troverebbe di fronte al difficile compito di trovare un equilibrio tra Ciudadanos e i popolari, partiti che hanno impostato una campagna elettorale molto simile e che aspirano entrambi a diventare (o restare) i leader del centrodestra. Bisognerebbe inoltre sciogliere il nodo di Vox capendo se sia in caso più opportuno farlo rientrare direttamente nella compagine di governo, oppure se chiedergli di restarne fuori fornendo all’eventuale governo il solo appoggio esterno.
Quale impatto sulle elezioni europee?
Mentre in tutta Europa avanza il fronte “sovranista”, la Spagna dovrebbe invece contribuire a rafforzare per la maggior parte partiti moderati o dell’opposizione più “tradizionale”. In particolare, se i sondaggi dovessero essere confermati, i socialisti di Sanchez potrebbero diventare la terza compagine per dimensione all’interno del gruppo europeo dei socialisti e democratici (S&D), mentre il PD italiano scivolerebbe in quarta posizione. Prima rappresentanza nazionale nel gruppo sarebbero i laburisti britannici, mentre seconda si classificherebbe la SPD tedesca. Si tratterebbe di un cambiamento radicale dei pesi nazionali all’interno del gruppo rispetto all’esito del voto del 2014, che aveva permesso all’Italia di affermarsi come prima forza dell’area del socialismo europeo, consentendole anche di eleggerne il capogruppo (Gianni Pittella, poi dimessosi a marzo del 2018). Inoltre, a causa del processo di Brexit i laburisti britannici non dovrebbero avere molta forza all’interno del gruppo, rafforzando ulteriormente il peso dei parlamentari spagnoli.
I parlamentari spagnoli potrebbero anche essere seconda o terza forza tra i liberaldemocratici di ALDE, dietro alla Francia (ammesso che Macron decida alla fine di fare il suo atteso ingresso nel gruppo) e in concorrenza con la Romania. Il gruppo europeo di ALDE resta comunque molto eterogeneo, dal momento che per la Spagna il partito che vi partecipa è Ciudadanos, una formazione di centrodestra favorevole a politiche anche notevolmente diverse rispetto a quelle di Macron. Inoltre all’interno del gruppo è attualmente in corso un importante dibattito sulla possibilità o meno di estromettere proprio i parlamentari ALDE della Romania, che fanno attualmente parte della coalizione di governo di Bucarest che l’UE accusa di non rispettare lo stato di diritto e di avere fatto marcia indietro sulle leggi anticorruzione nel Paese.
Infine, i parlamentari spagnoli potrebbero essere prima formazione nazionale nel gruppo europeo delle sinistre, GUE/NGL: il risultato di Unidos Podemos dovrebbe infatti consentire al partito di eleggere 10 europarlamentari, portando la Spagna davanti (anche se di misura) ai tedeschi di Die Linke (9) e a France Insoumise (8).
Resta comunque difficile da prevedere l’impatto che la concomitanza delle elezioni comunali e regionali con le europee del 26 maggio potrebbe avere sul comportamento degli elettori, al bivio tra la conferma dei partiti tradizionali o il voto per i nuovi volti della politica spagnola.