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Focus

Spagna: nuovo stallo, ma cresce l’estrema destra

Antonio Villafranca
|
Fabio Parola
11 novembre 2019

Quattro elezioni in quattro anni, ma continua lo stallo politico in Spagna. Domenica 10 novembre il voto degli spagnoli ha confermato il partito socialista (PSOE) prima forza in parlamento con il 28% dei voti, non sufficiente per una maggioranza, mentre l'estrema destra di Vox ha raddoppiato i seggi. L’incertezza politica cominciata con le elezioni del 2015 e proseguita con la tornata dell’anno successivo e alle elezioni dello scorso aprile continua a tormentare re Filippo VI e il parlamento spagnolo, dove il prossimo premier dovrà ottenere l’appoggio di più partiti per una maggioranza stabile.

 

Quattro voti in quattro anni: cosa c’è dietro l’instabilità di Madrid?

Dopo che, a fine luglio, il leader socialista Pedro Sánchez non è riuscito a ottenere la fiducia della Camera, il parlamento spagnolo è stato sciolto, con la data delle nuove elezioni fissata al 10 novembre. Quali sono state le ragioni dietro il fallimento dei negoziati di Sánchez?

Le elezioni di aprile avevano visto il Partito socialista (PSOE) ritrovare una posizione di relativo vantaggio, con il 35% dei seggi della camera (123 su 350). I partiti alla sinistra dello schieramento di Sánchez sembravano dunque essere i candidati più naturali con cui intavolare le trattative per una nuova coalizione. Tentare di ricostituire l’alleanza che aveva sostenuto il precedente governo socialista (che univa PSOE, Unidas Podemos e i partiti indipendentisti catalani) significava tuttavia trovare un compromesso con gli stessi partiti che avevano determinato la fine del primo esecutivo Sánchez. 

Le strade alternative, però, sembravano ancora più difficili da percorrere. Tanto il Partito popolare (Pp), riferimento tradizionale dell’elettorato conservatore moderato, quanto il partito liberale Ciudadanos (Cs) hanno infatti assunto negli ultimi mesi posizioni sempre più filo-nazionaliste, in risposta alle agitazioni indipendentiste in Catalogna. Lo spostamento verso destra è sembrato anche un tentativo (fallito) di contenere la crescita di Vox, partito ultranazionalista  di destra che alle elezioni di aprile è entrato per la prima volta in Parlamento con 24 seggi (il 7% dei seggi totali) e ha raddoppiato i propri seggi in parlamento a novembre (52 seggi con il 15% dei voti). La conseguenza del riposizionamento di Pp e Cs è stata però di rendere mutualmente più difficile da accettare una “grande coalizione” tra i socialisti e i due partiti di destra moderata.

Con il naufragio, tra luglio e settembre, delle trattative tra Sánchez e il leader di Unidas Podemos (Up), Pablo Iglesias, si era dunque chiusa l’unica strada realisticamente percorribile per la formazione di un nuovo governo e la convocazione di nuove elezioni è stata inevitabile.

Come anticipato dai sondaggi, la Spagna si ritrova però dopo il voto in una situazione sostanzialmente analoga a quella uscita dalla tornata di aprile. I sei partiti principali del parlamento spagnolo sono infatti divisi in due blocchi, centrodestra e centrosinistra, con percentuali di preferenze simili: a destra il Partito popolare, Ciudadanos e Vox controllano complessivamente 150 dei 350 seggi dell'assemblea; a sinistra PSOE, Podemos e il nuovo partito Más País hanno 158 parlamentari, comunque meno della soglia di 176 seggi per una maggioranza. Analogamente a quanto accaduto dopo le elezioni di aprile, nessuno dei due blocchi sarebbe dunque in grado di formare una maggioranza e, salvo alleanze trasversali tra destra e sinistra, un nuovo stallo potrebbe quindi attendere il parlamento spagnolo. Non è neppure scontato che un’alleanza possa trovarsi tra partiti “vicini”: il rapporto tra il PSOE e Podemos ha risentito delle trattative fallite nei mesi scorsi, né è chiaro se i catalani di Sinistra repubblicana di Catalogna (ERC) sarebbero disposti a tornare ad appoggiare Sánchez; a destra, popolari, Ciudadanos e Vox non si sono espressi sulla possibilità di allearsi (anche se coalizioni tra i tre a livello locale sono già state tentate, per esempio a Madrid).

Come per il precedente governo di Sánchez, a decidere il destino del prossimo governo potrebbero quindi essere i voti dei deputati dei partiti regionalisti baschi, delle isole Canarie e soprattutto della Catalogna, che insieme controllano 42 seggi. Quanto accaduto a Barcellona nelle ultime settimane potrà dunque avere riflessi sia sul futuro dell’indipendentismo catalano, sia sulle fortune del prossimo governo nazionale.

 

La questione catalana: nuova escalation tra Madrid e Barcellona?

A far ripiombare la Catalogna sulle prime pagine dei giornali spagnoli e non solo è stata la Corte costituzionale: a metà ottobre, infatti, i giudici supremi spagnoli hanno emesso sentenze di condanna per nove dei dodici leader indipendentisti catalani arrestati dopo il referendum del 2017. I capi di imputazione riconosciuti sono quelli di sedizione e appropriazione indebita di fondi pubblici; è caduta invece l’accusa di ribellione, che avrebbe fatto aumentare il massimo della pena comminabile fino a 25 anni di reclusione. La condanna più severa (13 anni di carcere) è andata a Oriol Junqueras, presidente della Sinistra repubblicana di Catalogna (ERC), il principale partito indipendentista della regione.

Contro l’ex governatore della Catalogna, Carles Puigdemont, che vive in “esilio volontario” in Belgio da dopo il referendum, è stato invece spiccato un nuovo mandato di cattura internazionale. La decisione della corte suprema spagnola di condannare gli indipendentisti per sedizione, invece che per ribellione, dà alle autorità di Madrid un’arma in più per cercare di ottenere l’estradizione di Puigdemont, cosa che era stata negata in passato da Germania e Belgio proprio in base al fatto che i due paesi non riconoscevano l’accusa di ribellione. Ad oggi, Puigdemont non può peraltro avvalersi dell’immunità parlamentare: nonostante lui e Antoni Comín, ex ministro della Salute della Catalogna, siano risultati tra gli eletti alle elezioni europee del maggio scorso, le autorità spagnole non hanno infatti incluso i loro nomi nella lista dei nuovi deputati da accreditare all’assemblea di Strasburgo (decisione su cui anche la Corte di giustizia dell’UE si è espressa favorevolmente).

Le sentenze hanno riacceso le proteste a Barcellona e in tutta la Catalogna, complice anche la posizione ambigua del nuovo governatore della regione, Quim Torra, che ha invitato al dialogo tra governo e indipendentisti ma ha anche promesso un nuovo referendum. Il re Felipe VI è stato fortemente contestato nella sua visita del 4 novembre a Barcellona, la prima volta del monarca spagnolo nel capoluogo catalano dopo l’inizio delle proteste indipendentiste. 

La popolazione della Catalogna rimane comunque fortemente divisa sulla questione: lo scorso 11 settembre all’ultima Diada, la giornata nazionale catalana che da anni è diventata l’anniversario informale del movimento indipendentista, il numero di persone scese in piazza per chiedere l’indipendenza della regione si è fermato a 600.000, in calo rispetto al milione di manifestanti della Diada precedente. Anche al referendum del 2017, la larghissima maggioranza di voti a favore dell’indipendenza (92%) era stata ridimensionata dal dato relativamente basso dell’affluenza, ferma al 43% a causa del boicottaggio degli “unionisti”. Di fatto, anche secondo le intenzioni di voto registrate dai sondaggisti, la regione resta divisa praticamente a metà.

Ma, come ricordato sopra, se la Catalogna rimane spaccata in due, le sue fratture si allargano ulteriormente verso la scena politica nazionale. Al primo dibattito televisivo tra i sei principali contendenti alle elezioni del 10 novembre, la questione catalana ha finito per occupare buona parte della discussione. Tra popolari, Ciudadanos e Vox la gara è stata su chi riuscisse a assumere la posizione più intransigente sul tema. Sánchez è stato accusato di stare permettendo un “colpo di Stato permanente” in Catalogna da Santiago Abascal, il leader di Vox, che chiede di revocare l’autonomia al governo della regione. A sinistra, Sánchez invita Madrid e Barcellona al dialogo, mentre l’ex premier socialista ha rivendicato di avere gestito con fermezza e misura le tensioni sulla “coabitazione” tra regione e stato centrale assicurando che, se rieletto, introdurrà una riforma che chiarisca la proibizione di indire referendum come quello dell’ottobre 2017.

 

Europa, economia e migrazioni: le altre sfide del prossimo premier

Anche se l’attenzione dell’opinione pubblica è tutta concentrata sulla questione indipendentista, il prossimo inquilino della Moncloa dovrà affrontare altri dossier importanti: su tutti, politica europea, crescita economica e migrazioni.

Sul fronte europeo, l’ultimo anno ha offerto alla Spagna una serie di opportunità, stanti anche la prospettiva di Brexit e le vicissitudini cui è andato incontro il governo italiano. Sia Sánchez sia il primo ministro portoghese António Costa (da poco riconfermato al governo) si sono accreditati quali alleati del presidente francese Emmanuel Macron nelle negoziazioni per l’elezioni di Ursula von der Leyen quale nuova presidente della Commissione europea. Il governo Sánchez ha anche ottenuto la nomina di Josep Borrell, ministro degli Esteri spagnolo, a nuovo Alto Rappresentante dell’UE per la politica estera e di sicurezza: all’erede di Federica Mogherini toccherà, tra gli altri, il delicato compito di gestire le relazioni tra Bruxelles e i Balcani, a rischio deterioramento dopo il rifiuto del Consiglio europeo di aprire i negoziati di adesione con Albania e Macedonia del Nord. La buona performance del PSOE alle elezioni europee di maggio, infine, ha portato i socialisti nel Parlamento europeo a scegliere la spagnola Iratxe Garcia come capogruppo per la legislatura da poco iniziata. Quanto di questo capitale politico potrà tradursi in risultati concreti dipenderà, comunque, anche da dinamiche interne alla Spagna e dalla capacità del prossimo premier di tracciare una rotta chiara nella sua politica europea.

Relativamente indifferente rispetto ai travagli della politica madrilena appare invece l’economia spagnola. Quest’anno il PIL del paese è previsto in crescita sostenuta: 2,2%, contro l’1,5% della media UE e l’1,2% dell’Eurozona (nel 2018 l’economia spagnola era cresciuta del 2,6%, a fronte del 2,2% europeo e dell’1,9% della zona euro). Lo scorso anno, tra l’altro, il PIL pro capite degli spagnoli a parità di potere d’acquisto ha superato per la prima volta quello italiano: €40.170 per la Spagna contro €39.680 per l’Italia. Sul fronte dei conti pubblici, il debito pubblico spagnolo rimane relativamente alto (96,4% del PIL nazionale), ma dal 2015 è in lenta discesa. Il nuovo governo spagnolo dovrà comunque fare i conti con il rallentamento dell’economia globale che si teme possa arrivare anche in conseguenza della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, così come con il livello ancora alto di disoccupazione (15,2%) e il flusso incostante di investimenti esteri.

Un’altra sfida per il prossimo premier spagnolo sarà, infine, quella della gestione dei flussi migratori. Anche se, nelle sedi europee, la Spagna è stata relativamente silenziosa sul tema, lo scorso anno il Mediterraneo occidentale è tornato ad essere una delle rotte più trafficate per chi cerca di raggiungere l’Europa dal Nord Africa: nel 2018, in Spagna si sono registrati quasi 60.000 arrivi, contro i 32.000 della Grecia e i 23.000 dell’Italia. Dall’inizio del 2019 gli arrivi in Spagna si sono dimezzati ma restano oltre 27.000: quasi il triplo rispetto ai circa 10.000 sbarchi in Italia. Anche se la questione migratoria non è stata tra le più discusse negli ultimi anni in Spagna, il recente aumento dei flussi dalla sponda sud del Mediterraneo sta lentamente riportando il tema sul tavolo della discussione politica. In passato, il governo spagnolo era stato tra i più aperti alla discussione sulla riforma delle regole europee sull’immigrazione e tra i più favorevoli alla redistribuzione dei richiedenti asilo tra i paesi dell’UE. L’aumento degli arrivi dell’anno scorso ha però spinto il governo Sánchez a prevedere multe salatissime (fino a un milione di euro) alle Ong che operino salvataggi in mare senza l’autorizzazione di Madrid e a stringere accordi con il governo marocchino per cercare di limitare le partenze.

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EUROPA 2019

AUTORI

Antonio Villafranca
ISPI Research coordinator and Co-Head, Europe and Global Governance Centre
Fabio Parola
ISPI, Europa e governance globale

Questo focus è stato realizzato con il contributo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale ai sensi dell'art. 23- bis del DPR 18/1967. Le posizioni contenute nel presente focus sono espressione esclusivamente degli autori e non rappresentano necessariamente le posizioni del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

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