Il G7 straordinario di oggi ha discusso dell’evacuazione dall’Afghanistan, ma si è parlato anche del futuro dei rapporti col paese e del possibile riconoscimento del regime talebano.
I leader del G7 – organo informale che raggruppa Stati Uniti, Germania, Italia, Regno Unito, Francia, Canada e Giappone – si sono riuniti in videoconferenza oggi per discutere della situazione in Afghanistan. Si è parlato soprattutto del termine ultimo per l’evacuazione degli stranieri dal paese e dell’opportunità di estenderlo oltre il 31 agosto. Gli Stati Uniti di Joe Biden ribadiscono di voler rispettare questa deadline, soprattutto per evitare ritorsioni dei Talebani, che hanno già chiarito che una presenza straniera oltre quella data comporterebbe reazioni e, probabilmente, scontri con le forze occidentali ancora presenti sul suolo afghano. Parallelamente, a Kabul, il direttore della CIA William Burns ha incontrato il leader politico dei Talebani Mullah Abdul Ghani Baradar nel tentativo di negoziare un’estensione del termine ultimo per il ritiro.
Il meeting del G7 è stato presieduto dal Regno Unito del premier Boris Johnson, che – insieme alla Francia e all’Italia – è tra i principali sostenitori dell’estensione della deadline.
Rimane aperta, tra le altre, la questione del futuro esecutivo di Kabul. L’obiettivo delle potenze occidentali, ribadito in prima linea da Londra, è “garantire che qualsiasi nuovo governo sia inclusivo e rispetti gli obblighi internazionali”, come si legge in una nota di Downing Street. Il tema ruota quindi attorno alla questione del riconoscimento del regime talebano, ponendo il dilemma tra possibili sanzioni e una qualche forma di collaborazione, affinché i gruppi più vulnerabili, in primis le donne afghane, non siano vittime di repressione e violazioni di diritti umani. I leader del G7 sono alla ricerca di unità politica per trattare con il futuro emirato islamico e decidere “se e quando riconoscere il regime talebano […] impegnandosi a continuare a lavorare congiuntamente”, come riferisce una fonte diplomatica europea.
Riconoscere i Talebani?
Se a proposito del processo di evacuazione i leader occidentali sono d’accordo sul cercare di mettere in salvo quante più persone possibile, al netto dell’incognita sull’eventuale posticipo della partenza definitiva, si potrebbero invece profilare divisioni sul futuro riconoscimento dei Talebani. Come riporta Reuters, citando fonti anonime, la linea del premier britannico Johnson è quella di promuovere sanzioni economiche verso il regime e di condizionare l’aiuto al paese alla condotta del futuro governo. Ovvero sospendere gli aiuti qualora i Talebani dovessero rendersi responsabili di abusi e violazioni dei diritti umani, o diventare un porto sicuro per organizzazioni terroristiche. Anche gli Stati Uniti pongono “dure condizioni” per una futura collaborazione col governo talebano. L’impressione è che un eventuale riconoscimento possa essere usato per far leva sui Talebani e incentivare il rispetto dei diritti umani della popolazione locale. In generale, le potenze occidentali prenderanno tempo per monitorare la condotta dei miliziani islamici: “Giudicheremo il nuovo regime sulla base delle azioni, non delle parole”, come dichiara l’ambasciatrice britannica negli USA Karen Pierce. Praticamente le stesse parole usate dai leader del G7 nella loro dichiarazione congiunta.
La comunità internazionale ha più volte fatto appelli affinché il futuro governo dell’Afghanistan sia rappresentativo e inclusivo, riservando posizioni di potere anche alle donne. Dal canto loro, a parole i Talebani hanno rassicurato che intendono rispettare i diritti umani e delle donne, nella cornice della legge islamica.
Unità internazionale?
Il G7 di oggi è anche un test per le alleanze internazionali. Ritrovare l’unità politica è fondamentale non solo per affrontare la crisi in corso ma anche per il futuro della comunità internazionale. Il timore è che possa presto svanire l’ottimismo assaporato con l’inizio dell’amministrazione Biden. Le divisioni però non sono solo interne al blocco occidentale – che, al momento, deve ancora affrontare lo scoglio maggiore: cosa fare con i rifugiati afghani – ma riguardano le divergenze su scala globale. Cina e Russia, così come Iran e Turchia, hanno infatti una posizione diversa verso i Talebani, con i quali non escludono di dialogare (e in alcuni casi lo hanno già fatto) per soddisfare diversi interessi politici e commerciali. A differenza delle potenze occidentali, lo faranno “con relazioni bilaterali basate sugli affari, non sul rispetto dei diritti umani e l’institution-building: una via certo più semplice”, come sostiene l’analista Eleonora Ardemagni.
La diplomazia di questi attori sottolinea inoltre la forte dimensione regionale della questione afghana. Una dimensione che i leader del G7 non possono trascurare, anche perché – come sottolinea Ardemagni – anche cinesi, russi ed iraniani “temono, per ragioni diverse, il terrorismo jihadista di al-Qaeda e del sedicente Stato Islamico”. Un timore comune, quindi, che potrebbe favorire la collaborazione internazionale.

Quanto ci è costato?
Infine, una riflessione indiretta tra le potenze occidentali riguarderà i costi, umani ed economici, della guerra in Afghanistan. Secondo il Watson Institute for International and Public Affairs, i vent’anni dell’occupazione del paese e le operazioni nel vicino Pakistan hanno portato via circa 240mila vite umane, di cui 71mila civili. Da un punto di vista economico, per gli Stati Uniti d’America, potenza leader della guerra in Afghanistan, il conflitto è costato 2261 miliardi di dollari, con una media giornaliera di 309 milioni di dollari. Inoltre, a questi si aggiungeranno le spese sia per i veterani e i reduci della guerra, sia per gli interessi sul debito effettuato dagli USA per sostenere il conflitto.
Tra le varie voci di spesa figurano anche i soldi impiegati per addestrare ed equipaggiare le istituzioni militari e di polizia afghane. Alla luce della velocità con cui queste si sono dissolte di fronte all’avanzata talebana, i vent’anni della guerra in Afghanistan risultano ancor più un fallimento della strategia occidentale nel paese.
Il commento
Di Antonio Villafranca, ISPI Director of Studies
I leader del G7 si sono soffermati soprattutto sulla questione del ritiro entro il 31 agosto (o dopo, Talebani permettendo). Sullo sfondo, per il momento, la questione dei rifugiati su cui non vanno di certo ripetuti gli errori del passato, puntando stavolta a fornire adeguate risorse e assistenza ai paesi confinanti e alle organizzazioni internazionali. La vera sfida però riguarda il futuro politico ed economico dell'Afghanistan. Le riserve valutarie del paese sono congelate soprattutto presso Fed, IMF e banche americane, così come sono congelati i miliardi degli aiuti occidentali. Il crollo della valuta locale (già in affanno) e l'inflazione rischiano di stremare una popolazione che per oltre la metà è sotto la soglia di povertà. Una situazione che potrebbe spingere altri Afghani a lasciare il paese.
Difficile pensare che nuove sanzioni possano essere d’aiuto alla stabilizzazione del paese. Il G7 da solo non può trovare soluzioni adeguate senza spingersi oltre il G7 stesso e coinvolgendo, in primis, Cina e Russia nell'ambito del G20 e del Consiglio di sicurezza dell'ONU. I leader G7 sembrano riconoscerlo, ma è importante far seguire i fatti sulla base di una strategia condivisa che non perda di vista gli interessi in gioco, ma senza per questo contribuire ad affamare una popolazione già stremata.
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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications)