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L'invasione

Speciale Russia-Ucraina: 10 mappe per capire il conflitto

12 gennaio 2023

L’11 gennaio il Ministero della difesa russa ha annunciato la nomina del generale Valery Gerasimov – capo di stato maggiore dell’esercito - a capo delle operazioni dell’esercito di Mosca in Ucraina. Gerasimov sostituisce Sergei Surovikin, declassato a vice di Gerasimov. Il Ministero della difesa ha presentato la decisione come parte di un più ampio piano di ristrutturazione delle linee di comando delle truppe impiegate in Ucraina, al fine di intensificare le operazioni di guerra e migliorarne la conduzione. Inoltre, la mossa avrebbe un significato politico: segnalare, sia sul piano internazionale sia su quello domestico, la preminenza del Ministero della difesa su quelle personalità che, associate alle strutture di potere, godono di un discreto grado di autonomia e autorità (siloviki). Fra queste la figura più nota è Yevgeny Prigozhin, uno dei principali finanziatori del gruppo di mercenari Wagner e critico nei confronti della strategia del Cremlino in Ucraina. Surovikin è vicino alla fazione dei siloviki e fra i favoriti di Prigozhin.

Nel frattempo, nonostante molte fonti russe dichiarino il contrario, l’esercito di Putin non ha ancora conquistato la cittadina di Soledar, nell’est dell’Ucraina. Il valore strategico di Soledar è in sé limitato,ma la presa del centro abitato sarebbe sbandierabile come un successo per la Russia, dopo mesi senza vittorie importanti. Alcuni analisti fanno notare che conquistare Soledar consentirebbe alle forze di Mosca di avvicinarsi alla città di Bakhmut, ma anche la presa di quest’ultima sarebbe un successo più propagandistico che operativo. 

A quasi un anno dall’inizio del conflitto, quella in Ucraina sembra essere sempre più una guerra di logoramento. Sebbene la scarsità di rifornimenti e munizioni stia ostacolando in modo decisivo l’avanzata delle forze russe, Putin non dà segni di voler scendere a compromessi con Zelensky per concludere un accordo di pace, o quantomeno un armistizio. Al contrario, sono sempre più le voci che avanzano l'ipotesi di un’altra imminente campagna di coscrizioni. 

Intanto continua il supporto fornito dai governi occidentali a Kiev. Il 13 dicembre, a conclusione della Conferenza sull’Ucraina organizzata a Parigi e a cui hanno partecipato 47 paesi e numerose organizzazioni internazionali, è stato annunciato che quasi un miliardo di euro – raccolti grazie a donazioni – verranno dati a Kiev per aiutare la popolazione ucraina a sopravvivere la guerra. Inoltre, il 9 dicembre il Dipartimento di Stato americano ha annunciato l’approvazione di un ulteriore pacchetto di aiuti (il 27esimo dall’agosto 2021) dal valore di 275 milioni di dollari (circa 260 milioni di euro) al fine di sostenere l’apparato bellico ucraino. L’Unione Europea ha invece pronti 18 milioni di euro da inviare come aiuti all’Ucraina nel 2023. 

Ma come sì è arrivati a questo punto? Per capirlo bisogna tornare indietro di qualche mese.

 

 

All'alba del 24 febbraio 2022 il presidente russo Vladimir Putin ha dato l'ordine di invadere la vicina Ucraina. La decisione è avvenuta poco dopoil riconoscimento delle repubbliche separatiste del Donbass situate in territorio ucraino, Donetsk e Lugansk, e l'invio di truppe con la motivazione ufficiale di un’iniziativa di peacekeeping. Il conflitto va ormai avanti da più di dieci mesi. 

La crisi tra Russia e Ucraina non è però scoppiata all’improvviso. Il contrasto dura apertamente da otto anni: da quando, nel 2014, dopo la Rivoluzione di Euromaidan culminata con la cacciata dell’allora presidente Janukovyč, Mosca ha invaso e annesso la penisola di Crimea e sostenuto i movimenti separatisti nella regione del Donbass, in Ucraina orientale. Dopo che la Russia è passata all’attacco, Europa e Stati Uniti non sono state a guardare. Infatti, l’Ucraina si trova ai confini orientali di Unione Europea e NATO (di cui la Russia teme un ulteriore allargamento a Est), ed è un punto di passaggio cruciale per la fornitura di gas russo. Come si è originata la crisi russo-ucraina? Quali sono gli obiettivi di Mosca? Dieci mappe che aiutano a capire la crisi.

Fin da subito è stato chiaro che l’offensiva russa non fosse un attacco limitato ad assicurare il controllo di Mosca sulle sole regioni contese dell’Ucraina orientale. Sebbene i piani del Cremlino fossero riservati, le dichiarazioni di Putin, del suo portavoce Dimitri Peskov e del Ministro degli esteri Sergei Lavrov, hanno fatto intendere che l’obiettivo finale fosse portare l’Ucraina all’interno della sfera d’influenza russa nella forma di uno stato fantoccio - sovrano e indipendente solo sulla carta. Tuttavia, il numero delle truppe dislocate sul terreno e i costi che un’occupazione militare avrebbero imposto in termini economici e materiali, hanno indotto gli analisti a escludere l’ipotesi che un tale obiettivo potesse essere raggiunto con un’occupazione militare dell’intero territorio ucraino.

Secondo fonti di intelligence ucraine, all’inizio dell’invasione la strategia del presidente russo prevedeva di costringere alla resa il governo di Volodymyr Zelensky. Invece, l’ipotesi più accreditata per il lungo periodo è sempre stata che Putin e i suoi generali intendessero mantenere il controllo dell’Ucraina orientale: la parte a est del fiume Dnepr. “L’obiettivo – spiegavano fonti di intelligence al quotidiano Ukrainska Pravda – potrebbe essere di dividere l’Ucraina in est e ovest, lungo il corso del Dnieper, come era un tempo la Germania”. Così facendo, Mosca avrebbe potuto instaurare una zona ‘cuscinetto’ tra la Russia e i paesi occidentali, utile a garantire la propria sicurezza.

Nella mappa sopra, le direttrici di entrata in Ucraina delle truppe russe da Sud, Est e Nord verso Kiev.

 

Venerdì 30 settembre, nella sala di San Giorgio al Cremlino, Vladimir Putin ha firmato il protocollo di annessione dei territori ucraini di Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson. Il 3 ottobre la Duma ha poi ratificato il documento. Il passaggio delle regioni alla Russia avviene dopo che si sono tenuti dei referendum farsa, il cui unico scopo è stato quello di giustificare una mossa altrimenti troppo avventata e del tutto irrispettosa del diritto internazionale – nonché della sovranità di uno stato indipendente -anche per il regime di Putin.

“Da oggi ci sono quattro regioni russe in più” ha annunciato Putin in un lungo discorso pronunciato dalla stessa sala dove otto anni prima, nel 2014, aveva proclamato il passaggio della Crimea dall’Ucraina alla Russia. I referendum che si sono tenuti nei quattro territori sono secondo Putin una chiara indicazione della volontà di autodeterminazione delle popolazioni locali.

Più del 15 % della superficie totale dell’Ucraina passa così alla Russia, ma l’occidente si schiera unito nel condannare la mossa. “Tutti i territori occupati illegalmente dagli invasori russi sono terra ucraina e faranno sempre parte di questa nazione sovrana”, con queste parole la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha commentato l’annessione Donetsk, Luhansk Kherson e Zaporizhzhia. Da parte sua Kiev ha promesso di liberare le regioni occupate e nel mentre Zelensky ha chiesto l’adesione alla NATO.

Per capire le origini della crisi bisogna fare un passo indietro. Dopo la caduta dell'Unione Sovietica, come altri paesi del vicinato russo, anche l’Ucraina ha conquistato l'indipendenza. Da molti, il paese è considerata la “culla” della cultura russa moderna: dal IX secolo d.C. l’Ucraina è stato il nucleo della Rus’ di Kiev, Stato monarchico medievale che si estendeva fino a Bielorussia e Russia. Dal 1923 al 1991 l’Ucraina è stata poi una delle Repubbliche dell’ex Unione Sovietica ricoprendo il ruolo fondamentale di “granaio dell’URSS” grazie alla grande estensione di terreni coltivabili. A seguito dell’indipendenza, la relazione tra Mosca e Kiev è diventata travagliata e ondivaga, a causa dell’alternanza tra governi filorussi e altri più vicini all’Occidente (seppur nel quadro di una politica multivettoriale volta a sfruttare la rivalità tra i due schieramenti). I due esempi più recenti di governi filooccidentali sono quelli di Viktor Juščenko, nato dopo la “rivoluzione arancione” di fine 2004, e quello attuale guidato da Volodymyr Zelensky.

Dalla dissoluzione dell’URSS nel 1991, la vita politica ucraina è stata segnata da una posizione intermedia tra Unione Europea e Russia, e da divisioni regionali, in particolare tra la parte occidentale e quella orientale, in cui un’alta percentuale della popolazione (secondo l’ultimo censo condotto nel 2001, oltre il 50% in Crimea e Donbass) si identifica nativa di lingua russa. Dopo tumultuosi mesi di dibattiti politici e proteste popolari, nel 2014 la Russia ha annesso la penisola ucraina di Crimea. Nello stesso anno, una linea di conflitto si è aperta nella regione orientale del Donbass, che ha visto i separatisti filorussi scontrarsi con l’esercito regolare. I separatisti hanno preso il controllo di parti del territorio e proclamato la nascita delle Repubblica Popolari di Lugansk e di Donetsk. Il 24 febbraio 2022 Putin ha sfruttato l’esistenza delle due Repubbliche (contese e non riconosciute dalla Comunità Internazionale) per annunciare l’ingresso delle truppe di Mosca in Ucraina e procedere con l’invasione, poi giustificare come un’operazione di “peacekeeping”.

L'Agenzia dell'Onu per i rifugiati stima che al 30 settembre sarebbero più di 7 milioni gli ucraini in fuga dal paese e diretti principalmente in Polonia e verso le altre nazioni confinanti. Si tratta principalmente di donne, bambini e anziani. Gli uomini in età militare dai 18 ai 60 anni hanno infatti perlopiù rispettato il divieto imposto dal presidente Zelensky che li ha esortati a rimanere per combattere. Diversamente da quanto accaduto in passato con profughi provenienti dal Medio Oriente, la fuga dei civili ucraini ha innescato una gara di solidarietà. Polonia, Romania, Ungheria hanno aperto le frontiere e consentito l’ingresso “a tutti coloro che vogliono entrare” anche se sprovvisti di documenti e certificazioni vaccinali. Mentre i ministri degli Interni europei hanno approvato un sistema di quote per la redistribuzione, il riconoscimento per l'Ucraina dello status di paese a rischio, facilitazioni per le procedure di espatrio e un altro stanziamento per affrontare l'emergenza.

La posizione dell’Ucraina tra Unione Europea e Russia fa sì che il conflitto abbia valenze che vanno ben oltre l’aggravarsi delle divisioni interne del paese. Negli ultimi anni, l’Ucraina ha ricevuto il supporto militare del fronte occidentale (2,7 miliardi di dollari gli aiuti ricevuti dagli USA dal 2014), riaccendendo le preoccupazioni russe di fronte a un suo ulteriore avvicinamento alla NATO. Dopo il collasso dell’URSS, l’Alleanza Atlantica si è espansa fino a includere paesi che la Russia ha storicamente considerato parte della sua orbita: uno sviluppo che il Cremlino considera una minaccia a livello securitario e simbolico. Per questo motivo Putin ha sempre richieste garanzie circa le azioni della NATO nella regione, fra le quali il divieto di ulteriori allargamenti e il ritiro delle forze dai paesi che si sono uniti all’Alleanza dopo il 1997 (un blocco che include buona parte dell’Europa orientale: dai paesi baltici ai Balcani).

Fin dai primi giorni dell’invasione si è parlato di un possibile ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica, sebbene tale scenario non sia mai stato accolto con entusiasmo dai paesi membri. Infatti, si temono le conseguenze che tale allargamento avrebbe sul l’applicazione dell’art.5, che prevede l’intervento della NATO in caso di aggressione contro uno degli alleati. L’ accettazione dell’Ucraina nel consesso atlantico potrebbe diventare quindi l’innesco di una guerra aperta fra Russia e occidente.

Il quadro si è però complicato in seguito all’annuncio di Zelensky di aver presentato richiesta formale di adesione all’Alleanza. Così facendo il presidente ucraino spera di scongiurare un’escalation del conflitto e far fronte alla minaccia russa di dispiegare ordigni atomici. Per tutta risposta il segretario generale Jan Stoltenberg ha ribadito il pieno sostegno all’Ucraina, ma circa la possibilità di aprire le porte della NATO ha sottolineato che la decisione spetta ai paesi membri, che per ora si sono però mostrati cauti e scettici circa la richiesta.

Nel corso dell’offensiva, il crescente dispiegamento di forze russo ha reso l’Ucraina un obiettivo esposto su diversi lati: a nord, a est e a sud, verso la Crimea. Un’esposizione particolarmente ampia per le difese ucraine; a questi su aggiunge un dispiegamento missilistico da parte della Russia potenzialmente in grado di coprire il 95% del territorio ucraino. Inoltre, la Russia conta su un numero compreso tra 170 e 190mila di forze di terra che provengono da tutto il paese: dai distretti militari del sud, da quelli del nord nel mar Baltico, e persino da quelli dell’estremo oriente russo, Siberia compresa. A queste si aggiunge una forza di (almeno) 35-40mila unità presenti nel Donbass composta da separatisti, mercenari e cittadini russi. La pressione sull’Ucraina è esercitata anche lungo il confine settentrionale a causa del coinvolgimento di unità bielorusse in esercitazioni militari con le forze di terra russe.

A fine settembre Putin ha poi annunciato la mobilitazione parziale e ha chiamato alle armi 300mila riservisti per integrare le forze russe in difficoltà sui fronti caldi in Ucraina. Tuttavia, le recenti dichiarazioni di Andrey Gurulev - ex vicecomandante dell'esercito russo -gettano ombre sull'effettiva capacità di Mosca di mobilitare i riservisti.

All’indomani dell’invasione russa circa il 36% del gas importato dall’UE (50% se si considerano solo le importazioni extraeuropee) proveniva da Mosca. L’Italia era il paese europeo che più faceva ricorso al gas naturale: il 42,5% del mix energetico. Quasi quanto la somma delle rispettive quote in Germania (26%) e Francia (17%). Ma i cugini d’oltralpe possono contar sul nucleare, che soddisfa quasi i due terzi del fabbisogno elettrico francese. Mentre la Germania è sì più virtuosa nelle rinnovabili ma rispetto a noi fa anche molto più ricorso al carbone.

Nel corso di questi anni l’Ue ha cercato attivamente di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento di gas, in particolare puntando sul gas naturale liquefatto (GNL). Questo già dopo il 2009 e 2010, quando per la prima volta la Russia ha chiuso i rubinetti verso l’Ucraina e parte dell’Unione. Ma la “dipendenza” da Mosca è un fatto strutturale e geografico: è molto più facile ed economico trasportare gas via tubo, e un enorme produttore non lontano dai grandi consumatori europei è un partner inevitabile. Per questo, malgrado le intenzioni sulla carta fossero quelle di diversificare le forniture, il calo di produzione in Norvegia, i problemi di produzione in Algeria e l’instabilità in Libia hanno al contrario aumentato la dipendenza europea da Mosca negli ultimi 10 anni.

A più di sette mesi dallo scoppio del conflitto, i flussi di gas russo vero l’Europa sono crollati del 73%. La rappresaglia da parte di Mosca al sostegno fornito dall’occidente all’Ucraina è passata infatti per la riduzione – e in alcuni casi sospensione- delle forniture di gas, con conseguente aumento dei prezzi sui mercati energetici di tutto il mondo. A livello europeo ancora manca una strategia comune per far fronte a questa drastica riduzione e all’aumento dei prezzi del combustibile fossile. I paesi occidentali si stanno muovendo in modo autonomo alla ricerca di nuovi partner e ognuno cerca di mettere al sicuro le proprie riserve di gas per far fronte all’inverno. Dal canto suo, l’Italia si è rivolta a Norvegia e Algeria, sebbene a reggere il colpo stia aiutando per lo più il Gas naturale liquefatto (GNL), in primis quello di provenienza statunitense e qatariota.

 

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