Lo scorso anno le fake news hanno provocato un'ondata di linciaggi e scontri etnico-religiosi in Sri Lanka e adesso, dopo l'atroce serie di attentati contro hotel e chiese che ha provocato la morte di oltre 200 persone e quasi 500 feriti nel giorno di Pasqua, le stesse fake news potrebbero condurre a un'ulteriore escalation di violenza.
Per questi motivi avanzare ipotesi prima che i fatti vengano accertati sarebbe ancora più pericoloso e spregiudicato che in altri scenari. Tuttavia, è legittimo mettere in fila alcuni fatti per tracciare il profilo di un paese poco conosciuto, ma che conta oltre 20 milioni di abitanti, si trova in una posizione strategica tra l'India e il Sudest asiatico, e dal quale provengono oltre centomila persone attualmente residenti in Italia, con una percentuale crescente di residenti di seconda generazione e di italiani di origine cingalese.
Quanto successo lo scorso anno in Sri Lanka rappresenta allo stesso tempo un monito per tutti i paesi con forti differenze etnico-religiose e un'alta penetrazione di utenti di social media, e un caso estremamente significativo per capire il mosaico dell’isola: nella primavera del 2018 numerosi account Facebook e Twitter riconducibili a gruppi di fondamentalisti buddhisti hanno diffuso false notizie su intolleranze e pestaggi a opera della minoranza musulmana. Secondo le notizie diffuse, l'epicentro di un complotto musulmano per sterminare la maggioranza buddhista sarebbe stato la cittadina di Ampara, nella quale estremisti islamisti avrebbero preparato e segretamente distribuito migliaia di pillole per rendere sterili i buddhisti ed estirpare così il buddhismo Theravada dall'isola.
Queste teorie della cospirazione hanno incendiato le tensioni latenti tra le varie comunità, provocando attacchi contro diverse moschee, linciaggi, e scontri a viso aperto tra gruppi di musulmani e gruppi di buddhisti, causando la morte di decine di persone. Il governo ha deciso di bloccare l'accesso ai social media mentre provava a riportare la ragione tra le due comunità, decisione ripetuta in queste ore mentre - dopo i sanguinosi attacchi di Pasqua - i social network rischiano di diventare il detonatore di una crisi ancora più grave, proprio a dieci anni di distanza dalla fine della guerra civile e in un periodo in cui il turismo si stava consolidando come un'industria da due milioni di presenze annue.
Ma se la follia da social network è simile a casi recenti scoppiati anche in India o in Indonesia, lo Sri Lanka ha alcune peculiarità che lo hanno reso particolarmente vulnerabile alle violenze. Prima di tutto, ovviamente, la guerra civile durata 26 anni tra il governo centrale e il movimento ribelle separatista delle Tigri Tamil, che al vertice della sua potenza controllava il 76% del nord del paese, aveva inaugurato le nefande pratiche delle cinture esplosive, degli attacchi kamikaze e degli attentati suicidi condotti da donne guerrigliere, ed era stato persino capace di mettere a segno un omicidio politico di altissimo profilo come quello dell'ex primo ministro indiano Rajiv Gandhi.
Dalla sconfitta della guerriglia, avvenuta nel 2009 con un'offensiva lanciata dall'allora presidente Mahinda Rajapaksa nella quale sarebbero morti oltre 40mila Tamil, è emerso uno Sri Lanka apparentemente molto più quieto, ma nel quale le tensioni hanno continuato a covare sottotraccia. Lo Sri Lanka è la patria del buddhismo Theravada, una forma di buddhismo che – senza inoltrarsi troppo in differenze dottrinarie – si è andata radicalizzando sempre di più negli ultimi anni, fino a sfociare in movimenti come il BBS (Bodu Bala Sena, "Forza del Potere Buddhista"), che inneggiano apertamente alla cacciata o all'esecuzione degli appartenenti alla minoranza musulmana. Rajapaksa, che nel 2015 ha cercato di forzare la costituzione per superare il limite dei due mandati presidenziali consecutivi, è accusato di aver flirtato con questi movimenti, anche quando è stato costretto a diventare capo dell'opposizione.
Per gli obiettivi – gli hotel internazionali e le chiese – e per la data simbolica di Pasqua, gli attentati di oggi sembrano puntare verso la pista dei fondamentalisti islamici, che in Sri Lanka hanno costituito diversi gruppi tra cui l'NTJ (National Thowheeth Jama'ath), che in passato aveva distrutto diversi simboli buddhisti. Se questa ipotesi si dimostrasse fondata, va sottolineato che finora i suoi adepti non erano mai apparsi dotati di capacità tecniche e organizzative tali da condurre una serie di attentati coordinati così sanguinosi. Ma ecco che si profila l'ombra ipotizzata dallo stesso primo ministro Ranil Wickremesinghe, ossia un coordinamento con i gruppi islamisti attivi in altre nazioni dell'area come Malaysia, Indonesia, le lontane Filippine e, soprattutto, il Myanmar. La questione dei Rohingya e, allo stesso tempo, l'afflusso di foreign fighters che si sono formati in Siria e che stanno tornando verso il Sudest asiatico, potrebbe aver creato le condizioni adatte a un'escalation anche in Sri Lanka.
Il presidente cingalese Mahitrapala Sirisena – eletto anche con voti musulmani e tamil – nel 2016 era stato il primo presidente a concedere la trasmissione dell'inno nazionale anche in lingua Tamil. Adesso si ritrova con il pesante fardello di una nazione piegata da un'ondata devastante di attentati, che potrebbero riaccendere le fratture mai risolte tra la maggioranza e la minoranza islamica, e attirare le mire di gruppi jihadisti con base straniera.