L’arresto e la condanna a morte, in Iran, di diciassette persone accusate di attività di spionaggio per conto della CIA è solo l’ultimo di una serie di atti con i quali Teheran sembra voler rispondere alle crescenti pressioni a cui il paese è stato sottoposto nel corso degli ultimi mesi da parte dell’amministrazione Trump. Da maggio a oggi stiamo assistendo infatti a un ciclo di botta e risposta tra Iran e Stati Uniti che si è finora concretizzato nella decisione iraniana di riprendere alcune attività relative al proprio programma nucleare, in attacchi a petroliere in transito nello stretto di Hormuz e nell’abbattimento di droni appartenenti alle rispettive forze armate. Nessuno di questi episodi è stato finora considerato un casus belli, ma l’estrema volatilità della situazione e il graduale deterioramento della sicurezza nella regione impongono di considerare tutti gli scenari come aperti, incluso quello bellico in conseguenza di un incidente.
La fine della “pazienza strategica”
A partire dallo scorso maggio l’Iran ha impresso una svolta repentina alla propria precedente politica di “pazienza strategica” – ovvero la scelta di non reagire alle pressioni statunitensi che sono andate aumentando dopo l’uscita di Washington dall’accordo sul nucleare (JCPOA) nella primavera 2018 – decidendo di passare ora al contrattacco in risposta alla politica di “massima pressione” del presidente statunitense Donald Trump. A determinare il cambiamento di strategia iraniano sono stati due fattori in particolare: la decisione dell’amministrazione Trump di ridurre a zero le esportazioni di petrolio di Teheran, non rinnovando le esenzioni precedentemente concesse ai maggiori acquirenti di greggio iraniano; nonché l’avvicinarsi di due appuntamenti elettorali cruciali per la Repubblica islamica, le elezioni parlamentari del 2020 e quelle presidenziali del 2021. Il primo fattore, colpendo i proventi petroliferi – ovvero la principale fonte di introito delle casse iraniane – ha rappresentato un punto di non ritorno per Teheran: per quanto il sistema politico-istituzionale iraniano appaia per il momento ancora solido, la crisi economica che affligge il paese rischia di eroderne progressivamente la legittimità. Connesso a questo primo elemento ci sono poi le elezioni dei prossimi due anni, che stanno portando il governo Rouhani ad allinearsi alle posizioni più nazionaliste presenti nel paese, cavalcate da sempre – e in maniera crescente da quando gli USA sono usciti dall’accordo – dai “falchi” iraniani, ovvero i conservatori più intransigenti e determinati a difendere i pilastri ideologici della Repubblica Islamica.
Regno Unito: la prima sfida per Boris Johnson
L’ultimo incidente in ordine di tempo è il sequestro da parte del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione (i Pasdaran), il 19 luglio, della petroliera svedese battente bandiera britannica Stena Impero, in risposta al sequestro da parte del Regno Unito, il 4 luglio, della petroliera iraniana battente bandiera panamense Grace One, fermata al largo di Gibilterra con l’accusa di trasportare petrolio verso la Siria, in violazione delle sanzioni europee su Damasco. Proprio venerdì, il giorno del sequestro della Stena Impero, Londra aveva confermato la proroga di un mese dello stato di fermo per la Grace One. Il timing degli avvenimenti non è casuale: Teheran ha voluto segnalare a Londra che il suo allineamento alle posizioni di Trump non è privo di conseguenze. La decisione da parte del Regno Unito di fermare e sequestrare la petroliera iraniana è infatti indicativa di un forte avvicinamento di Londra alla postura di Trump, secondo qualcuno resosi necessario dall’esigenza di ravvivare la tradizionale “special relationship” in vista della Brexit, ma anche dalla necessità di riguadagnare una leva sull’alleato americano dopo la recente rivelazione che l’ambasciatore britannico a Washington avrebbe espresso commenti poco ortodossi sul presidente statunitense. Nonostante Londra abbia assicurato di aver eseguito l’operazione per far rispettare le sanzioni europee nei confronti della Siria, il sospetto – formulato anche dal ministro degli Esteri spagnolo e da Josep Borrell, il possibile successore di Federica Mogherini come Alto rappresentante UE per la politica estera e di sicurezza – è che Londra lo abbia fatto in seguito a una richiesta di Washington, in ottemperanza al sistema sanzionatorio statunitense, di fronte al quale paradossalmente è in vigore proprio il Regolamento di Blocco europeo che in teoria impedisce ai soggetti economici europei di adeguarsi al regime statunitense. L’avventatezza della mossa inglese è dimostrata anche dalla complessa evoluzione della vicenda, che, con Theresa May dimissionaria dalla posizione di premier britannico, passa ora nelle mani del prossimo primo ministro, Boris Johnson. Il modo più semplice per ottenere la liberazione della Stena Impero e del suo equipaggio sarebbe il rilascio della Grace One, la petroliera iraniana fermata a Gibilterra, ma con un procedimento giuridico attualmente in corso a Gibilterra i tempi potrebbero non essere rapidi. Il ministro degli Esteri britannico Jeremy Hunt ha dunque invocato la creazione di una missione navale europea da dispiegare nel Golfo Persico a protezione delle petroliere in transito. L’appello di Hunt sembra essere stato finora raccolto dalla Francia, che si è detta pronta ad “assegnare mezzi militari” alla missione. Secondo il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, nelle prossime ore il viceministro degli Esteri Abbas Araghchi si recherà a Parigi per consegnare al presidente francese Emmanuel Macron un messaggio da parte del presidente iraniano Hassan Rouhani.
Come uscire dall’impasse?
La proposta di creare una missione navale europea sembra andare oltre quella avanzata da Trump nei giorni scorsi, cioè il dispiegamento di una coalizione internazionale per scortare le petroliere nel Golfo, la cosiddetta operazione Sentinella. Secondo la propria interpretazione, Washington assumerebbe la funzione di comando e controllo dell’operazione, mentre le navi militari dei paesi partecipanti condurrebbero le operazioni di scorta. La soluzione proposta dagli USA sarebbe una replica dell’Operazione Earnest Will messa in atto dall’amministrazione Reagan durante la guerra tra Iran e Iraq per proteggere le petroliere del Kuwait in transito nel Golfo. Esperti militari hanno sollevato però diversi dubbi circa la fattibilità dell’operazione, oltre che sulle sue possibili conseguenze. In particolare, le incognite maggiori si concentrano sulla reazione di Washington nel caso in cui Teheran approcci una nave scortata dalla Marina USA: la nave in questione dovrebbe attaccare per prima, per scongiurare un attacco da parte iraniana? Ma gli iraniani si assumerebbero il rischio di attaccare un vascello scortato dalla Marina USA? È in questi spazi grigi e nell’impossibilità di calcolare e di decifrare le possibili reazioni dell’altro che si insinua il pericolo dello scoppio di un conflitto aperto che nessuno desidera ma di cui tutti pagherebbero le conseguenze.
È forse per scongiurare il potenziale rischio di incidenti – e dunque di escalation che deriverebbe dal coinvolgimento diretto di mezzi militari USA – che alcuni paesi europei sembrano aperti a discutere l’idea di una missione UE. La proposta però presenta altrettante criticità: vi è da una parte sicuramente la facile ironia suscitata dal fatto che un paese in uscita dall’UE chieda aiuto all’Unione per risolvere una situazione derivante da una propria mossa azzardata, compiuta per rassicurare proprio quell’alleato statunitense che con una strategia verso l’Iran radicalmente opposta a quella europea è uno dei maggiori responsabili dell’attuale disgregazione della sicurezza nel Golfo Persico. Ma il principale elemento di criticità è rappresentato dal fatto che la creazione di una tale missione non rappresenterebbe niente di più che l’ennesimo tentativo di limitare i danni creati dalla strategia USA di massima pressione, senza incidere veramente sul contenzioso aperto tra USA e Iran intorno alla questione del nucleare, dalla quale derivano tutte le altre. Come interrompere dunque questo circolo vizioso di reazioni a catena, onde evitare che i numerosi incidenti che potrebbero ancora occorrere nelle prossime settimane sfocino in confronto aperto? Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, in diverse interviste rilasciate la scorsa settimana ai media statunitensi in occasione della sua visita a New York (per partecipare a una serie di incontri Onu sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile) ha messo in chiaro che la condizione iraniana per riprendere il negoziato sul nucleare (e distendere la situazione nel Golfo) è il sollevamento delle sanzioni statunitensi.
Come scriveva il presidente di International Crisis Group Robert Malley all’inizio di luglio, dunque prima dell’episodio di Gibilterra e del sequestro della Stena Impero, esistono ancora delle possibilità per evitare il conflitto. Tra queste, la decisione USA di sospendere le sanzioni relative al petrolio in cambio del ritorno iraniano alla piena implementazione del Jcpoa (con la mediazione di attori terzi), e la piena operazionalizzazione da parte dell’UE di INSTEX, lo strumento a sostegno degli scambi commerciali con l’Iran, per dare un segnale, seppur minimo, a Teheran, convincendola così a mettere in pausa l’escalation fino alle elezioni presidenziali USA del 2020. Come gli eventi di questo mese dimostrano, però, ciò a cui assistiamo è un progressivo aumento della tensione e con essa del rischio dello scoppio di un conflitto che Trump forse non vuole, ma al quale le sue politiche stanno inevitabilmente portando.