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Il commento

Stati Uniti: il GOP, la fronda e la silent majority

Giovanni Borgognone
12 giugno 2020

Negli ultimi giorni, alcuni dei più autorevoli media statunitensi, dal New York Times a CNN, hanno segnalato il formarsi di una possibile “fronda” all’interno del Partito repubblicano. Le reazioni incendiarie e divisive (come sempre) di Donald Trump alle manifestazioni di protesta divampate negli Stati Uniti contro il razzismo hanno infatti spinto alcuni esponenti “storici” del Grand Old Party a prendere esplicitamente le distanze da lui. Si tratta in particolare dell’ex presidente George W. Bush (di recente quasi “riabilitato” dai media in funzione anti-Trump), del senatore dell’Utah e candidato presidenziale del 2012 Mitt Romney e dell’ex segretario di Stato Colin Powell. Il 3 giugno scorso, anche l’ex segretario alla Difesa Jim Mattis ha accusato Trump di alimentare consapevolmente le divisioni del paese. Le sue critiche sono state condivise dalla senatrice repubblicana dell’Alaska Lisa Murkovski. Nel frattempo è intervenuto pubblicamente Bush, esortando gli americani bianchi a sostenere e capire i neri e auspicando che si segua la strada dell’empatia. Romney si è unito ai manifestanti di Washington e ha difeso le ragioni del movimento “Black Lives Matter”. Infine Powell, intervistato dalla CNN, ha indicato esplicitamente la sua preferenza, nella corsa alla Casa Bianca di quest’anno, per l’ex vicepresidente Joe Biden.

I democratici ovviamente si augurano che espressioni di netto dissenso da parte di voci repubblicane così autorevoli e note all’opinione pubblica possano innescare divisioni più profonde nel Gop, finora apparso irreggimentato da Trump, come ha tra l’altro dimostrato la vicenda dell’impeachment tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Anche in quel caso, in realtà, non mancarono segnali di possibili disallineamenti, ma i repubblicani eletti al Congresso alla fine si dimostrarono compatti dietro al presidente. La domanda è: potrebbe ora cambiare qualcosa, di fronte al modo in cui Trump ha reagito alla mobilitazione di massa contro il razzismo, descrivendo i manifestanti come teppisti, minacciando la repressione militare delle proteste e invocando solo “law and order”? Bush, Romney e Powell non lo appoggiarono nel 2016 (l’ex segretario di Stato, in precedenti elezioni presidenziali, sostenne Barack Obama e Hillary Clinton). Mattis fa parte della lunga fila di personalità dell’amministrazione repubblicana che si sono alternate in carica al ritmo di un reality e che, uscite di scena, hanno evidenti motivi di risentimento nei confronti del mattatore. Murkovski, già acerrima avversaria di un’esponente della destra repubblicana come Sarah Palin, ha ripetutamente criticato il presidente (in occasione dell’impeachment, pur votando per l’assoluzione, definì il comportamento di Trump “vergognoso e sbagliato”). Infine non può certo sorprendere che anche Cindy McCain, vedova del candidato repubblicano che nel 2008 sfidò Barack Obama, sia propensa a sostenere Biden: il marito, senatore dell’Arizona, è stato il più fiero oppositore del presidente all’interno del Gop, fino alla morte nel 2018.

Già nel 2016 Trump vinse le elezioni nonostante vi fosse un’ampia schiera di repubblicani e di ex militari esplicitamente ostili nei suoi confronti. Rispetto ad allora, quando molti peraltro temevano si trattasse di un candidato perdente, egli può ora contare sul sostegno di larga parte del suo partito, inclusi gli influenti senatori Mitch McConnell, Ted Cruz e Lindsey Graham. Quest’ultimo ha in realtà espresso apprezzamento per il generale Mark Milley, capo di stato maggiore, che si è scusato per essere apparso accanto a Trump nella controversa visita del presidente alla chiesa di St. John, dopo che erano stati adoperati gas lacrimogeni per disperdere la folla in modo da consentirgli di posare per i fotografi con una Bibbia in mano. Non si può escludere che la “fronda” si espanda e diventi effettivamente un problema per Trump; tuttavia al momento si tratta più che altro di un’auspicata ipotesi giornalistica. Sul piano del consenso popolare, i traumi causati dal coronavirus prima e dal video dell’uccisione di George Floyd poi, con il grande movimento di protesta che ne è seguito, hanno sicuramente contribuito a rendere lo scenario più instabile rispetto a pochi mesi fa, quando i prodigiosi dati dell’economia americana rendevano assai probabile il secondo mandato per il presidente in carica. Ora invece Trump si è trovato a dover contenere l’offensiva della società civile indignata dal razzismo. Si è pertanto rivolto alla nixoniana silent majority, a quelli che “non strillano” e che diffidano dei rivolgimenti di piazza. Dovrà riuscire a tenerli contraddittoriamente insieme, in questa nuova ondata di guerra culturale, ai militanti della destra, talvolta armati, scesi in strada per contestare il lockdown e da lui difesi come “very good people”. In ogni caso, se Biden riuscirà a prevalere a novembre, non sarà certo grazie a divisioni all’interno dell’élite repubblicana, bensì perché il suo avversario non sarà riuscito a fare sufficientemente leva sull’elettorato moderato bianco. Nell’epoca della shock politics, come hanno di recente dimostrato i traumi provocati dalla pandemia e dalla morte di George Floyd, in cinque mesi può ancora accadere di tutto.

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AUTORI

Giovanni Borgognone
Università di Torino

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