La composizione della futura amministrazione Trump lascia intendere che il nuovo Presidente non abbia intenzione di moderare la proposta politica avanzata durante la campagna elettorale. Dall’ambiente alla sicurezza, dall’economia alla politica estera, le nomine di Trump sono state tanto radicali quanto poco ortodosse. Non vi sono stati riposizionamenti al centro né concessioni bipartisan; l’establishment repubblicano pare osservare passivo se non sgomento, consapevole della posizione strutturale di debolezza nella quale per il momento si trova di fronte al Presidente eletto.
È utile quindi ricapitolare quali siano i pilastri centrali della proposta politica avanzata da Trump per poi soffermarsi sugli ostacoli che essa è destinata a incontrare e le conseguenti incognite che si aprono oggi di fronte agli Stati Uniti e al resto del mondo.
Il programma della nuova amministrazione può essere sintetizzato con quattro parole chiave. La prima è deregolamentazione. Coerentemente con un mantra repubblicano che nemmeno la crisi del 2007-8 ha scalfito, Trump e la sua squadra ritengono che gli Usa e la loro economia siano strangolati da un eccesso di vincoli, che soffocano innovazione e crescita. Contro questo Stato regolamentatore – che con Obama ha di molto accresciuto le sue prerogative, anche in risposta alla semi-paralisi legislativa di questi anni – Trump e il Congresso repubblicano agiranno subito: smantellando pezzi della riforma Dodd-Frank che disciplina il sistema finanziario e tutela i consumatori; rimovendo molti dei provvedimenti introdotti per ridurre le emissioni nocive e combattere il cambiamento climatico; e procedendo a una nuova serie di tagli alle tasse, sui redditi e sui capitali.
La seconda parola chiave è nazionalismo. Trump ha parlato, e parla, un linguaggio ostentatamente nazionalista ed eccezionalista, che rivendica la necessità di tutelare senza remore l’interesse del paese e che guarda alle relazioni internazionali come una sorta di gioco a somma zero, dove al guadagno relativo di un attore corrisponde la contestuale ed equivalente perdita di un altro. È un nazionalismo, quello trumpiano, che si contrappone sia al multilateralismo internazionalista di Obama sia, e forse ancor più, all’interventismo messianico di Bush e dei neoconservatori. E che ha un complemento nella terza parola chiave alla quale dobbiamo affidarci: protezionismo. Qui è marcata ed evidente l’eccentricità di Trump rispetto alla grammatica globalizzatrice e liberoscambista egemone da almeno quattro decenni nel discorso e nella proposta dei repubblicani (anche se il combinato disposto di nativismo xenofobo e protezionismo ha solide matrici nella tradizione del conservatorismo americano).
La quarta parola chiave è quella d’interventismo. Un interventismo pubblico, questo, sostenuto soprattutto dal principale consigliere di Trump, Steve Bannon, veicolato anch’esso attraverso una retorica scopertamente nazionalista, che sarebbe sostenibile grazie ai bassissimi tassi d’interesse e giustificato dalla necessità sia di ammodernare una rete infrastrutturale drammaticamente obsoleta sia di promuovere investimenti dal facile, e immediato, effetto moltiplicatore su PIL e occupazione.
Sono conciliabili tra loro queste parole chiave? Possono convergere in un’azione politica incisiva e coerente? È difficile rispondere positivamente a queste domande: le incongruenze e contraddizioni sono troppe, così come le resistenze che presumibilmente si attiveranno da subito contro le proposte di Trump. Tra i tanti ostacoli che la nuova amministrazione fronteggerà, quattro – generali e in una certa misura strutturali – vanno qui menzionati. Il primo deriva dal fatto che il consenso interno di cui disporrà Trump è fisiologicamente limitato e probabilmente decrescente. I democratici soffrono di una inefficiente distribuzione del loro elettorato, concentrato maggiormente in alcuni stati e nelle aree metropolitane, ma sono maggioranza nel paese, come in fondo anche il voto del 2016 ha rivelato. In un paese dove il ciclo elettorale non ha di fatto soluzione di continuità, Trump dovrà da subito fare i conti con una opposizione ampia, che potrebbe essere assai incisiva soprattutto a livello statale.
Il secondo ostacolo sta dentro lo stesso partito repubblicano (e il mondo conservatore più in generale). Le convergenze su alcune delle proposte di Trump – in particolare in materia fiscale – sono ovvie ed evidenti, ma vi sono delle divergenze che non tarderanno a emergere e che già nelle settimane della transizione post-voto sono state visibili. Il protezionismo di Trump così come le proposte d’investimenti infrastrutturali di Bannon si scontrano contro alcuni dei dogmi non solo dei repubblicani, ma anche di quella base del Tea Party che pure ha avuto un ruolo decisivo nei successi elettorali del neo-Presidente.
E questo ci porta agli ultimi due ostacoli. Il primo è rappresentato da un contesto internazionale che limita di molto la possibilità per Trump di sostanziare le sue radicali promesse di discontinuità con le politiche estere di Obama e Bush Jr. Il peso relativo degli Usa nel sistema internazionale è diminuito, laddove sono invece aumentati i vincoli derivanti dal loro collocarsi al centro di un denso reticolo d’interdipendenze. Il gioco a somma zero di Trump, in altre parole, mal si addice al complesso contesto odierno, come proprio le dinamiche della relazione sino-statunitense evidenziano con chiarezza.
Quarto e ultimo: i conti pubblici. Il modello di Trump rimanda a quella supply-side reaganiana – fondata sulla presunta equazione “basse tasse, alta crescita, alto gettito” - già screditata dalla storia. A fronte di un costante aumento dei costi della previdenza, la nuova amministrazione potrebbe così trovarsi costretta a intervenire su programmi – su tutti il sistema pensionistico (Social Security) – assai popolari e sostanzialmente inattaccabili. La quadratura del cerchio insomma non esiste, a maggior ragione per un Presidente giunto alla Casa Bianca con proposte tanto radicali ed estreme quanto spesso demagogiche e impraticabili.
Mario Del Pero, Institut d’études politiques, Sciences Po, Parigi