Con l’interminabile conteggio dei voti ormai quasi concluso, il quadro di questo midterm 2022 si definisce con più chiarezza. I repubblicani riacquisiscono il controllo della Camera dei rappresentanti, con una maggioranza (probabilmente 222 a 213) però molto più esile di quanto previsto e non dissimile da quella democratica del biennio 2021-2023. Il Senato rimane invece in mano al Partito Democratico con una maggioranza che potrebbe aumentare anche di un seggio (51 a 49) laddove il senatore in carica, Raphael Warnock, vincesse il ballottaggio in Georgia il 6 dicembre.
Pur con qualche eccezione, su scala locale – si votava per 88 delle 99 Camere statali e per ben 36 governatorati – il partito del Presidente Biden va decisamente meglio del previsto (e del 2020). Guadagna due governatorati e vince in alcuni stati cruciali anche in prospettiva presidenziali 2024 come il Wisconsin, il Michigan, la Pennsylvania e l’Arizona, dove perdono talora candidati trumpiani a una carica, fattasi improvvisamente cruciale, come quella di Segretario di Stato, con cui spetta spesso il compito di gestire le operazioni di voto e certificarne l’esito.
Il buon risultato democratico si estende alle assemblee legislative, con numerose vittorie che portano il numero totale di “trifectas” democratiche – Stati in cui il partito controlla sia il governatorato sia i due rami del Congresso – da 13 a 17, il migliore da 30 anni a questa parte. I repubblicani vincono – e in alcuni casi vincono bene – in Stati che si pensava fossero maggiormente contendibili come Florida, Georgia e Texas e riconquistano di misura il governatorato del Nevada: un pezzo di quella Sunbelt che si credeva potesse diventare gradualmente democratica e che invece rimane saldamente nelle mani dei repubblicani, in parte anche grazie al buon risultato che essi ottengono presso alcuni segmenti del composito elettorato ispanico.
Infine, vi sono stati come di consueto numerosi referendum statali. In molti casi si trattava di temi assai specifici e locali: in quattro Stati si votava addirittura per togliere dalle rispettive costituzioni la possibilità di punire reati penali con la schiavitù. Ma si è votato anche per referendum importanti per le loro implicazioni politiche nazionali, su tutti i cinque relativi all’aborto che hanno visto vittorie del fronte favorevole al diritto di aborto anche in Stati conservatori come il Montana e il Kentucky.
Interpretare i risultati
Cosa ci dice (e come si spiega) questo voto? Cosa ci attende nei prossimi due anni di governo diviso e in una campagna elettorale, quella presidenziale, che di fatto si è già aperta?
Le spiegazioni, innanzitutto. Questo midterm ha smentito sia tendenze storiche all’apparenza consolidate sia sondaggi che prevedevano una larga vittoria repubblicana. E ha smentito anche i due indicatori fondamentali spesso usati per prevedere l’esito del voto – il tasso di fiducia dei consumatori e quello dell’approvazione dell’operato della Presidenza – che lasciavano a loro volta presagire una sconfitta democratica. Al Senato i democratici beneficiavano sì di una mappa elettorale favorevole dovendo difendere solo 14 dei 35 seggi in palio; e però non solo conservano la maggioranza, ma potrebbero addirittura rafforzarla. Alla Camera contengono la sconfitta e i repubblicani si ritrovano con una maggioranza assai esigua e non a prova di defezioni. Se lo valutiamo in prospettiva storica, questo è il miglior risultato al midterm per un partito del Presidente dal 2002 se non, per i democratici e nel caso di un Presidente eletto solo due anni prima, dal 1962 o addirittura dal 1934.
Due sono le spiegazioni generali, strettamente interrelate, che possono essere offerte per comprendere questo esito inatteso. La prima è quella polarizzazione che sembra costituire davvero la cifra distintiva della politica statunitense oggi. Il Paese è diviso in due blocchi politico-elettorali contrapposti, contraddistinti da un fortissimo tasso di ostilità reciproca: dalla propensione cioè a rappresentare la controparte non come un avversario legittimo, ma come un pericolo e una minaccia finanche esistenziale per la democrazia statunitense. Le matrici di questa polarizzazione sono plurime: ideologiche, culturali, generazionali, demografiche, geografiche (con il primo, fondamentale cleavage tra aree metropolitane e zone rurali). L’effetto primario di questa delegittimazione dell’avversario è però una bassissima mobilità elettorale: una staticità misurabile attraverso la propensione crescente degli elettori a votare sempre per i candidati dello stesso partito (voto straight ticket) a prescindere dalle cariche o dalla tornata elettorale.
Se osserviamo l’ultimo midterm, questa staticità dell’elettorato sembra ridurre strutturalmente la possibilità di avere grandi oscillazioni simili a quelle che in passato produssero le pesanti sconfitte del partito del Presidente in numerosi midterm. E quei parametri a cui ci siamo affidati per predire l’esito del voto – a partire dalla popolarità/impopolarità del Presidente – diventano così meno significativi, perché la polarizzazione e la staticità ne limitano di molto gli effetti elettorali.
A patto di sapere mobilitare il proprio elettorato. Perché in un contesto polarizzato, diventa fondamentale ridurre al minimo apatia e astensionismo nel proprio campo. Al midterm ciò pare essere più facile per il partito che non controlla la Presidenza e che beneficia tendenzialmente di un gap di entusiasmo tra il proprio elettorato e quello della controparte. Il traino fondamentale che porta a votare è oggi infatti negativo: si vota (e si decide, magari controvoglia, di recarsi alle urne) più in opposizione che a favore di qualcosa (una politica) o di qualcuno (un candidato). Nel midterm 2022 tale polarizzazione negativa pare avere aiutato paradossalmente i democratici. Da un lato, alcuni temi – su tutti il diritto all’aborto oggi cancellato in alcuni Stati e minacciato in altri – hanno pesato più del previsto e trascinato molti elettori magari delusi dall’amministrazione Biden a votare comunque. Dall’altro il peso esercitato da Trump nelle primarie repubblicane, e la scelta di candidati trumpiani spesso radicali ha catalizzato quella paura che appunto rappresenta fattore fondamentale nello spingere a votare. Per difendere il diritto all’aborto, dopo che la Corte Suprema ha tolto la garanzia federale in vigore da quasi mezzo secolo, ovvero per proteggere la democrazia statunitense che si ritiene minacciata dall’estremismo eversivo di Trump, gli elettori democratici hanno votato molto più del previsto compensando quel gap di entusiasmo che in un midterm sembrava avvantaggiare i repubblicani.
Previsioni a due anni
Quali le conseguenze, infine, e cosa si può prevedere per i prossimi due anni? Il governo diviso costituisce una condizione ormai quasi fisiologica della democrazia statunitense: dagli anni Ottanta a oggi, su 21 bienni legislativi in solo 6 occasioni il partito del Presidente ha avuto anche il controllo di entrambe le Camere. Leggenda vuole che ciò favorisca l’efficienza governativa, spingendo le due parti a quelle mediazioni e a quei compromessi indispensabili a un efficace funzionamento dell’iter legislativo al Congresso. Di leggenda però in larga misura si tratta, soprattutto nel contesto iperpolarizzato (e a bassissima produttività legislativa) degli ultimi due decenni.
Con una campagna elettorale per le Presidenziali 2024 che è di fatto già partita, le due parti cercheranno presumibilmente di massimizzare la polarizzazione negativa, portando nel Congresso diviso molti provvedimenti ad alto contenuto simbolico – funzionali cioè a “energizzare” il proprio elettorato – e bassa o nulla possibilità di approvazione. Se così sarà, si confermerà un’altra tendenza della democrazia statunitense contemporanea: quella cioè a governare primariamente per via esecutiva, attraverso ordini presidenziali, o burocratico-amministrativa, con l’amministrazione che fornisce alle burocrazie federali competenti minute indicazioni attuative delle leggi esistenti, in accordo con i propri obiettivi politici (e non di rado stravolgendo il senso ultimo di molte di quelle leggi). Una tendenza che pone ovvi problemi di democraticità e di efficienza, in quanto stravolge il dettame costituzionale, conferendo alla Presidenza privilegi che non le spetterebbero, e al contempo produce politiche pubbliche prive di codificazione legislativa e quindi facilmente reversibili.
Nell’America polarizzata odierna, il governo diviso esaspera una contraddizione di fondo di un sistema presidenziale al tempo stesso troppo forte (nell’arrogarsi privilegi esecutivi) e troppo debole (nel non poter dare continuità alle proprie politiche). A questa contraddizione si aggiunge quella di un modello federale sottoposto oggi a tensioni fortissime. La polarizzazione amplia cioè lo scarto tra le politiche degli Stati repubblicani e quelle degli Stati democratici, e dentro di essi tra città e campagna, prime aree suburbane ed ex-urbia pre-rurale. Con questo midterm è ad esempio ulteriormente aumentato il numero di trifectas statali; governi unitari, questi, che producono decisioni e legislazione spesso molto partigiane, aumentando ancor più la differenza tra le normative dei diversi Stati, come il caso dell’aborto mostra ad esempio molto bene.
L’incognita Trump
Accanto a questo, sarà dirimente comprendere come i repubblicani gestiranno la questione Trump e il suo impatto sulla tenuta della esile maggioranza di cui dispongono alla Camera. Basterà cioè un numero molto limitato, non più di 4/5, di “repubblicani responsabili” per impedire azioni radicali come la mancata approvazione dell’aumento del debito pubblico, che potrebbe avere forti ripercussioni sui mercati finanziari globali, l’attivazione di commissioni d’inchiesta contro Biden e i democratici o la contestazione della politica seguita finora rispetto alla guerra in Ucraina. Il punto interrogativo non è se questi repubblicani responsabili esistano – sappiamo che in teoria ci sono - ma se Trump sia uscito da questo voto talmente indebolito da permettere loro di uscire allo scoperto senza temere di dover pagare un dazio pesante in termini politici ed elettorali.