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Le mosse di Trump

Stati Uniti in Siria: in or out?

Federico Borsari
|
Chiara Lovotti
|
Francesco Salesio Schiavi
|
Valeria Talbot
08 ottobre 2019

Nuove incognite si aprono per la Siria, e per il Medio Oriente, dopo l’annuncio del presidente USA Donald Trump di voler completare il ritiro del contingente statunitense dal paese. La decisione di Trump, che ha suscitato sorpresa e critiche anche all’interno della sua stessa amministrazione, ha sparigliato le carte del complesso e intricato puzzle siriano, dove si sovrappongono interessi, spesso confliggenti, di diversi attori interni ed esterni. Nel frattempo le truppe di Ankara hanno iniziato a mobilitarsi lungo il confine, gettando scompiglio tra i curdi siriani, principale alleato di Washington nella lotta allo Stato islamico. In un tweet successivo Trump ha però specificato che il disimpegno statunitense non significa un via libera a un intervento da parte della Turchia, che però nella notte dell'8 ottobre ha iniziato la sua operazione militare nel nord della Siria. Quali scenari potrebbe aprire l'intervento turco sui futuri assetti interni del paese? Quali conseguenze per i curdi stretti tra la Turchia e il regime di Bashar al-Assad? C’è il rischio di una riorganizzazione dello Stato islamico? E cosa cambia per gli altri attori internazionali in campo, su tutti la Russia? 

 

 

Trump e la Siria: quale strategia?

È nota da tempo la politica estera trumpiana volta a ridimensionare l’impegno americano nelle missioni in Medio Oriente. Fin dal dicembre 2018, infatti, il presidente aveva gettato nel panico gli alleati degli Stati Uniti, e non solo, dopo il suo annuncio di voler ritirare i 2.000 soldati statunitensi all’epoca dispiegati in Siria, una scelta motivata dal fatto di avere, a suo dire, interamente sconfitto lo Stato islamico (IS). L’annuncio è infatti in linea con due delle promesse che Trump aveva fatto al suo elettorato, ovvero la sconfitta di IS e il ritiro delle truppe statunitensi dallo scacchiere mediorientale. In quell’occasione, sia il dipartimento della Difesa che la Casa Bianca avevano dissuaso il presidente, convincendolo a ridurre progressivamente il personale USA in Medio Oriente nel tentativo di fornire agli alleati il tempo necessario per trovare una soluzione al vuoto lasciato dagli Stati Uniti. Sin da allora, Washington ha avviato una serie di scambi bilaterali con la Turchia per la creazione di una zona cuscinetto nel nord della Siria, richiesta a gran voce dal governo di Ankara, e il riassetto delle aree a maggioranza curda. Risultato tuttavia non raggiunto nonostante l’accordo di inizio agosto per la creazione di un centro per il coordinamento e la gestione congiunta della zona cuscinetto. 

Con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali 2020 negli Stati Uniti, il medesimo scenario si è ripresentato domenica scorsa, quando la Casa Bianca ha dichiarato il contenuto della chiamata tra Donald Trump e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, in cui il presidente USA ha garantito il ritiro dal nord-est siriano del personale militare statunitense. In quello che è inizialmente sembrato come una luce verde alle operazioni turche nel Kurdistan siriano, anche questa volta Trump è stato costretto a fare marcia indietro a causa della resistenza di chi a Washington contesta l’idea della sconfitta dello Stato islamico e che anzi vede nell’annuncio di domenica un chiaro tradimento ai danni dei curdi, principali alleati statunitensi nella zona. Di tutta risposta, il presidente ha dichiarato che è pronto a “spazzare via l’economia della Turchia” nel caso in cui questa compia un atto considerato “off-limits.” La dichiarazione ha in parte rassicurato il Pentagono, per il quale un ritiro repentino degli Stati Uniti da un lato rafforzerebbe ulteriormente le posizioni di Iran e Russia, e dall’altro potrebbe aprire la strada a un ritorno dello Stato islamico. Un allentamento del controllo da parte delle forze curde potrebbe infatti permettere fuga di migliaia di combattenti dello Stato islamico dai campi di detenzione presenti nelle aree dello scontro. Le milizie curde sono state un elemento fondamentale sul campo nella lotta allo Stato islamico condotta dalla missione internazionale a guida statunitense in Siria e Iraq, soprattutto in virtù delle limitate capacità che possono offrire i governi di Damasco e Baghdad a tale scopo.
 

Quali sono gli obiettivi di Ankara?

Attraverso l’intervento militare, la Turchia intende creare una zona cuscinetto di almeno 30 km a ridosso del confine con la Siria. Questa zona è sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane (SDF), una coalizione a maggioranza curda di cui fanno parte le Unità curde di Protezione Popolare (YPG), considerate da Ankara un’organizzazione terroristica affiliata al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), con cui da oltre trent’anni è in atto uno scontro che ha provocato in Turchia oltre 40.000 vittime. Nell’ottica turca, dunque, la presenza delle YPG alla sua frontiera meridionale e la prospettiva di un’autonomia curda sotto il loro controllo costituiscono una minaccia alla sua sicurezza nazionale. Per evitare la saldatura di una fascia territoriale curda nel Nord della Siria, la Turchia negli ultimi tre anni ha portato avanti due operazioni militari – “Scudo dell’Eufrate” nel 2016 e “Ramo d’Ulivo” nel 2018 – e da tempo preme per completare la messa in sicurezza del suo confine anche nelle aree a est dell’Eufrate. 

A inizio agosto Ankara e Washington, che in queste aree mantiene ancora un contingente di 1.000 unità dopo il ritiro parziale deciso da Trump lo scorso dicembre, si erano accordate dopo lunghe trattative e forti pressioni turche per la creazione di un’area cuscinetto sotto il controllo congiunto. Tuttavia, a causa di disaccordi tra i due alleati, l’implementazione è risultata piuttosto difficile e non ha portato ai risultati sperati da Erdoğan che, in più di un’occasione, ha manifestato il suo disappunto. Nelle intenzioni turche, la creazione della zona cuscinetto dovrebbe servire anche a favorire il ritorno in Siria dei rifugiati presenti sul suo territorio. La politica della “porta aperta” condotta inizialmente dal governo di Erdoğan ha portato in Turchia oltre 3,6 milioni di rifugiati siriani, con ingenti costi per il governo di Ankara, che dal 2011 ha speso oltre 37 miliardi di dollari nella gestione dell’accoglienza. Ai costi economici si è aggiunto un crescente malcontento sociale nei confronti dei rifugiati, soprattutto nelle grandi città del paese, e delle politiche di accoglienza del governo, tanto che oggi il ricollocamento dei siriani è diventato una pressante questione di politica interna in Turchia. In quest’ottica, l’insistenza del governo di Ankara per la creazione di una safe zone potrebbe essere strumentale per tenere a bada i timori dell’opinione pubblica turca. Tuttavia, il piano di Ankara rischia di creare nuova instabilità nel nord della Siria e di rinfocolare antiche tensioni etniche. Se fino ad ora la Turchia non ha esitato ad assumersi i costi e rischi del suo crescente coinvolgimento in Siria, resta da vedere se sarà in grado di gestire tanto i costi quanto i rischi di un nuovo intervento militare.
 

Quali conseguenze per i curdi siriani?

Da alleato imprescindibile nella lotta allo Stato islamico in Siria a partner sacrificabile nella più ampia strategia mediorientale della Casa Bianca: questo, almeno, è quello che i curdi siriani – così come gran parte degli osservatori internazionali – hanno percepito dalle comunicazioni e dai tweet provenienti negli scorsi giorni da Trump (che poco fa ha però nuovamente cambiato messaggio definendo i curdi “persone speciali e grandi combattenti”, a riprova della sua imprevedibilità). In una conferenza stampa di poche ore fa, i vertici delle Forze Democratiche Siriane hanno definito l’annuncio di un disimpegno statunitense come “una pugnalata alle spalle”, accusando gli Stati Uniti di non aver rispettato i propri impegni a garantire la sicurezza e la stabilità delle popolazioni lungo il confine turco-siriano attraverso il meccanismo di pattugliamenti congiunti organizzato in accordo con Ankara e le stesse SDF. 

Mentre resta da vedere quale sarà l’entità del disimpegno americano, lo spostamento di alcune decine di effettivi USA dai punti di osservazione di Tal Abyad, Ein Eissa e Ras Al-Ain, ha comunque indotto centinaia di civili, in buona parte curdi, a evacuare verso sud nel timore di un attacco turco. Di fatto, la prima conseguenza tangibile è proprio una nuova ondata di sfollati interni verso i territori situati a est del fiume Eufrate, già sotto pressione per la carenza di infrastrutture e servizi e per la difficile convivenza tra le numerose comunità che vi risiedono, in particolare quella araba e quella curda. Attualmente le forze appartenenti alle YPG sono dispiegate a una distanza che varia da 5 a 14 km dal confine turco, in base ai termini previsti dal meccanismo di sicurezza stabilito lo scorso agosto con Stati Uniti e Turchia. 

Nella stessa conferenza stampa di ieri, le SDF si sono dichiarate pronte “a difendere la propria terra ad ogni costo”, facendo appello non solo ai curdi, ma anche agli arabi e alle minoranze assira e siriaca affinché si uniscano contro qualsiasi aggressione turca. Con queste premesse, la posizione curda, specie dal punto di vista militare, sarebbe messa a dura prova, trovandosi senza il supporto del suo principale alleato e minacciata su due fronti da rivali nettamente più forti: la Turchia a nord e il regime siriano a ovest. Un’offensiva di Ankara offrirebbe infatti ad Assad l’occasione per muovere ad est dell’Eufrate in un momento in cui le SDF sono già impegnate altrove. Mentre un possibile accordo, o quantomeno l’avvio di un vero processo negoziale, tra i curdi siriani e Damasco non sembra impossibile, visti anche i tentativi passati, il fronte con Ankara sembra invece destinato a restare molto caldo. Dalla prospettiva curda, il regime di Assad potrebbe infatti trasformarsi, almeno temporaneamente, in un alleato. Non a caso, parallelamente all’allestimento di nuove postazioni lungo il confine con la Turchia e allo spostamento di numerosi rinforzi dalle aree di Raqqa e Deir el-Zor, gli ufficiali curdi non hanno escluso la possibilità di colloqui con il governo siriano. Sul piano internazionale, invece, l’uscita di scena degli Stati Uniti potrebbe spingere i curdi siriani nelle braccia di nuovi potenziali alleati, su tutti la Russia, privando Washington di un affidabile partner nella regione.

Se questi presupposti dovessero concretizzarsi, l’esperimento del Rojava, il progetto di una regione autonoma curda nel nord-est della Siria avviato nel 2015, potrebbe sbriciolarsi, gettando l’area in balia di instabilità e interessi confliggenti, con i curdi abbandonati di fatto al miglior offerente. Le strade a disposizione delle forze curdo-siriane per evitare uno scontro impari sono limitate e comportano inevitabili concessioni. Da un lato, raggiungere un accordo con Assad e chiedere il suo sostegno contro Ankara implicherebbe molto probabilmente la cessione a Damasco del controllo su preziosi giacimenti petroliferi oltre che su parte di territori a est dell’Eufrate. Dall’altro, attuare preventivamente una ritirata strategica verso sud, garantendo ad Ankara la desiderata area cuscinetto, implicherebbe lo spostamento di migliaia di civili, la perdita di credibilità politica tra la popolazione curdo-siriana nonché un notevole ridimensionamento territoriale, rendendo di fatto la restante area controllata dalle SDF un calderone d’instabilità. Se entrambe le opzioni appaiono poco appetibili, la prima appare sicuramente come il male minore.
 

Cosa cambia per la Russia?

All’annuncio del presidente Donald Trump non è seguita una presa di posizione netta da parte della Russia, uno degli attori principali nella crisi siriana. La posizione ufficiale di Mosca è sempre stata quella che tutte le forze non legittime presenti sul territorio siriano – ossia non riconosciute dal governo di Damasco, fra le quali rientrano dunque anche quelle americane – debbano lasciare il paese. Di fronte all’escalation della crisi di questi giorni il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov sì è limitato a ribadire questa posizione, sottolineando che “c’è un forte sentore che Washington non lavori per ristabilire l’integrità territoriale della Siria”. In una recente intervista, poi trascritta e pubblicata sul sito del ministero degli Esteri russo, ha anzi auspicato che Washington completi al più presto il ritiro delle truppe, annunciato ormai quasi un anno fa. Ad ogni modo, l’eventuale ritiro delle truppe USA dal nord-est del paese comporta opportunità e rischi per Mosca. Da una parte, rappresenterebbe l’ennesima opportunità per Mosca di estendere la propria influenza in Siria e, da qui, in tutta la regione. La Russia resterebbe infatti il solo attore internazionale di rilievo in Siria. Non solo, il possibile intervento turco potrebbe spingere i curdi a cercare protezione da parte di Mosca. Sentendosi sotto attacco turco e orfani del sostegno americano, i curdi potrebbero persino diventare flessibili nel raggiungere un accordo con Damasco, ovviamente sotto la mediazione di Mosca. 

Dall’altra parte, però, la decisione statunitense rischia di mettere il Cremlino in una posizione scomoda. Se la politica finora perseguita dai russi è stata quella di mantenere un dialogo e buone relazioni con tutti i principali stakeholder della crisi siriana, la luce verde americana all’operazione turca rischia di aggravare le buone, ma comunque complesse, relazioni tra Mosca e Ankara. Mosca potrebbe infatti trovarsi schiacciata fra i due suoi partner mediorientali, Ankara e Damasco, e trovarsi costretta a prendere posizione in favore di uno dei due. In un simile scenario, a spuntarla sarebbe più probabilmente il regime di Damasco, la cui salvaguardia è condizione imprescindibile per la Russia. In questo contesto, la distanza tra Mosca e Ankara rischia di allargarsi, potenzialmente spingendo la Turchia a cercare supporto sempre maggiore da parte degli Stati Uniti, con i quali condivide l'appartenenza alla NATO. Se cercare di prevedere le future evoluzioni nel contesto siriano sembra un azzardo, è chiaro come, nel lungo periodo, il ruolo di mediazione di Mosca tra Damasco e le varie parti coinvolte nella crisi diventerà sempre più complessa.

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AUTORI

Federico Borsari
ISPI Research Assistant
Chiara Lovotti
ISPI Associate Research Fellow
Francesco Salesio Schiavi
ISPI Research Trainee
Valeria Talbot
ISPI Co-Head MENA Centre

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