La nuova Agenda di sviluppo 2030 dell'ONU è stata oggetto di dibattito al momento dell'aggiunta di nuovi obiettivi ai Millennium Development Goals. Rilevante è stata la proposta di inserire tra i Sustainable Development Goals (una parte dei suddetti obiettivi), anche la nozione di "stato di diritto", inteso come la costruzione di istituzioni coerenti con un ordine alla base dello sviluppo di ogni paese. Una proposta a cui non sono mancate resistenze: il concetto di stato di diritto, infatti, sebbene riconosciuto anche in Asia e Africa come fondamentale, è un "prodotto" del pensiero occidentale che secondo paesi come Russia, Cina, Colombia, Venezuela e Brasile, traduce principi politici in forme diverse dalla loro interpretazione.
Durante le negoziazioni sulla nuova agenda per lo sviluppo delle Nazioni Unite, l’Agenda 2030, tra gli argomenti più dibattuti vi era la nozione di stato di diritto. Si doveva decidere se tale concetto potesse essere o meno un argomento rilevante all’interno di un’agenda riguardante lo sviluppo sostenibile e, quindi, se era il caso di inserirlo nel documento delle Nazioni Unite.
L’Agenda 2030 contiene i 17 obiettivi che la comunità internazionale ritiene prioritari per il prossimi quindici anni. Ognuno di questi obiettivi è diviso in target che ne specificano l’ambito di applicazione. Fino ad oggi, tra il 2000 e il 2015, l’operato dell’Onu nel campo dello sviluppo era guidato da otto Millennium Development Goals (MDGs) tra i quali figuravano eradicazione della povertà, scuola primaria per i bambini, diritti delle donne, riduzione della mortalità infantile e miglioramento della salute materna, lotta all’Aids, sostenibilità ambientale e partenariato globale allo sviluppo. Si può convenire che questi obiettivi siano tutti facilmente condivisibili e, senza dubbio, appartenenti alla sfera dello sviluppo. Nella nuova agenda, approvata a settembre 2015, i 17 Sustainable Develoment Goals (SDGs) aggiungono a quelli appena citati alcuni obiettivi più “controversi” come il numero 16 “Pace, giustizia e istituzioni forti”, che comprende, tra i suoi target, anche lo stato di diritto. Il motivo per cui il concetto di stato di diritto, in inglese Rule of Law (Rol), risulta problematico è dovuto al fatto che alcuni paesi, in particolare Russia, Cina, India, Colombia, Brasile, Cuba, Venezuela e molti altri, lo percepiscono come un tentativo dell’Occidente di intromettersi nelle loro politiche di sicurezza con la scusa dell’agenda dello sviluppo.
Per inquadrare meglio il dibattito è bene ricordare che l’Onu è diviso in tre organi principali: Assemblea Generale (AG), Consiglio di Sicurezza (CdS) e Consiglio economico e sociale (Ecosoc). Anche se nominalmente il più importante dei tre è l’AG quello che, effettivamente, ha più poteri è il CdS. Questo è dovuto al fatto che, in base al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, il CdS dispone della forza coercitiva, tramite gli eserciti forniti dagli stati membri, per implementare le sue risoluzioni. Proprio per l’importanza del suo ruolo, il CdS ha un funzionamento molto delicato, che riflette gli equilibri risultati dal secondo dopoguerra: cinque membri sui quindici che lo compongono sono permanenti, ovvero i vincitori del secondo conflitto mondiale, e godono del diritto di veto sulle decisioni. Questo diritto rende molto complessa l’approvazione di qualsiasi risoluzione. Come casi emblematici si possono citare la recente annessione della Crimea da parte russa, la guerra in Siria e il decennale conflitto israelo-palestinese. Nei primi due casi la Russia ha posto il veto alle recenti proposte del CdS; nel caso del conflitto israelo-palestinese, invece, gli Stati Uniti hanno esercitato 41 volte questo diritto su risoluzioni contraria ad Israele.
Agenda 2030 ha creato un’occasione per estendere la competenza degli altri organi Onu, l’AG e Ecosoc, all’ambito della sicurezza, per cercare di uscire dai vincoli del CdS. Questa è stata l’interpretazione della Russia e dei suoi like-minded, secondo i quali l’Occidente avrebbe voluto strumentalizzare un’agenda sullo sviluppo sostenibile per aggirare le decisioni del CdS e cercare un’altra leva per far valere le sue posizioni.
Qualcosa di vero in questo c’è: ormai da anni si discute di una riforma del CdS perché quest’organo riflette equilibri di settant’anni fa che oggi non sono più attuali, non riconosce ad alcune aree geografiche il giusto peso e fatica a funzionare. Anche l’Italia partecipa a un’alleanza di stati, chiamata Uniting for Consensus, che chiede di riformare il CdS portando il numero di seggi a 25, dei quali 11 permanenti. In ogni caso, anche se è vero che è avvertita da molti la necessità di una riforma dell’Onu, non possiamo essere sicuri che la provocazione russa sia fondata. Per comprendere più a fondo bisognerebbe riflettere sul concetto di stato di diritto, nato in Europa da filosofi come Hobbes, Locke e Montesquieu. L’Enciclopedia Treccani lo descrive come «uno stato limitato e garantista, per la difesa dei diritti dei cittadini: […] si fonda sia sulla separazione dei poteri legislativo, giudiziario e amministrativo sia sulla coscienza che solo il diritto può dare alla società stabilità e ordine, con le sue norme chiare e certe, generali e astratte (e quindi impersonali), un diritto sempre subordinato a quella legge fondamentale che è espressa dalla costituzione».
Nel corso delle negoziazioni per l’Agenda 2030, il rappresentante permanente dell’Austria presso le Nazioni Unite, Martin Sajdik, ha scritto una lettera a nome di 53 stati per chiedere di inserire lo stato di diritto come uno dei 17 SDGs. Alla fine la nozione di stato di diritto è stata inserita, non come SDG ma tra uno dei 169 target che compongono l’agenda: precisamente nel terzo target dell’obiettivo numero 16. La lettera è stata tuttavia importante perché ha messo in evidenza la trasversalità del sostegno all’idea di stato di diritto. Pur essendo un concetto nato dalla filosofia e dalla storia occidentale anche molti stati africani e asiatici ne riconoscono l’importanza. Secondo i paesi favorevoli allo stato di diritto, questo sarebbe un presupposto fondamentale allo sviluppo di un paese. In uno stato corrotto, senza tribunali affidabili, istituzioni trasparenti e certezza del diritto, contro il potere arbitrario dello Stato, nessuno può sentirsi sicuro di sviluppare le proprie capacità e quindi contribuire al benessere del suo paese. Lo slogan che accompagnava queste argomentazioni era «There is no peace without development, and there is no development without peace». Di contro Russia, Cina, Colombia, Venezuela, Brasile e molti altri stati obiettavano che concetti come stato di diritto e diritti umani siano stati usati arbitrariamente dagli Stati Uniti e dai suoi alleati occidentali per imporre una propria visione del mondo. I critici degli Stati Uniti sostengono che questi applichino “double standards” in politica estera. Russia e Cina, in particolare, si autoproclamano difensori dei concetti di non ingerenza e di sovranità statale: nella loro visione mettere nelle mani della comunità internazionale la decisione sulla coerenza delle istituzioni di un paese con i parametri occidentali di stato di diritto metterebbe in crisi la sua sovranità.
Nella redazione di trattati internazionali ogni virgola ha un peso e ogni concetto nasconde delle divergenze molto più ampie di quello che appaiono. A leggere superficialmente l’Agenda 2030 sembrerebbe che la comunità internazionale abbia raggiunto un accordo su questioni di importanza storica ma girando il foglio per studiare le discussioni che hanno portato a questo compromesso si scoprono divisioni antiche e fondamentali che vanno molto al di là dello sviluppo sostenibile. Come europei è bene essere consapevoli delle posizioni portate avanti dai governi che ci rappresentano ma è importante anche comprendere le ragioni, plausibili, degli altri paesi.
Carlo Brenner Sgarbi, giornalista freelance.