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La rubrica

Storia del G20, un paese alla volta: Giappone

Guido Alberto Casanova
18 giugno 2021

Il Giappone è la terza economia mondiale nonché una delle più importanti potenze tecnologiche globali. Nonostante la crisi demografica e il relativo ristagno degli ultimi tre decenni, il paese è a pieno titolo uno dei grandi attori della politica internazionale non solo in Asia ma anche a livello globale. Per questi motivi, la presenza di Tokyo all’interno del G20 conferisce senza dubbio un maggiore spessore al forum internazionale, anche se negli anni i governi nipponici non hanno avuto sempre lo stesso riguardo per il forum intergovernativo. Ciononostante, tra priorità contrastanti e incertezze regionali, il Giappone negli anni ha attribuito un’importanza sempre maggiore al G20 fino ad arrivare ad ospitare il vertice del 2019 a Osaka.

 

Sentimenti contrastanti

La creazione del G20 nel 1999 come forum interministeriale a tema finanziario venne accettata positivamente dal Giappone dal momento che la composizione era stata concordata tra i membri del G8: l’aspettativa, perciò, era quella che il nuovo gruppo avrebbe prevalentemente accettato le proposte del gruppo ristretto delle economie occidentali avanzate. Tuttavia l’innalzamento del forum a livello di capi di stato e governo sulla scia della crisi finanziaria globale del 2007-2008 ha posto Tokyo di fronte a un dilemma.

Per una serie di ragioni, infatti, il Giappone ha nel G7 il proprio organismo preferito per la governance globale. In primis perché ne sancisce il ruolo di leader globale: non essendo infatti riuscito a ottenere un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per Tokyo il G7 rappresenta il miglior strumento di governance attraverso cui coordinare le politiche globali con le altre potenze. In una certa misura, l’appartenenza al gruppo dei paesi economicamente più avanzati è anche un simbolo tangibile della riabilitazione e della rinascita giapponese dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale. In secundis, essendo l’unico paese asiatico del gruppo, il Giappone si è investito del ruolo di portavoce per l’Asia-Pacifico in seno al gruppo delle potenze economiche: nonostante sia discutibile fino a che punto questo ruolo sia stato rivestito efficacemente, sicuramente l’interpretazione giapponese della propria posizione come un ponte tra oriente e occidente rappresenta un elemento rilevante per capire le preferenze di Tokyo tra i vari sistemi di governance.

Non a caso il Giappone rimase piuttosto freddo alla nascita del G20 nel 2008, al quale erano stati invitati per la prima volta anche i capi di stato e governo di Corea del Sud, Australia, India, Indonesia e soprattutto Cina. Per qualche anno Tokyo si è mosso con grande cautela, nel timore che il nuovo gruppo potesse scalzare per rilevanza il G7 come organo preferenziale di coordinamento della governance globale. Non solo, infatti, ha sostenuto un allargamento della partecipazione attraverso il programma “Global Governance Group” (un gruppo eterogeneo di circa 30 piccoli e medi paesi), ma il Giappone si è anche opposto alla creazione di un segretariato del G20 per impedirne la maggior istituzionalizzazione. Sebbene Tokyo accettasse la ratio di un maggior coordinamento internazionale per garantire la stabilità dell’economia globale, dopo il vertice di Pittsburgh del 2009 il premier Hatoyama Yukio osservava che il G7 (allora G8) era ancora rilevante per creare un nucleo di coordinamento in seno a un gruppo più ampio come il G20.

 

La rivalutazione del G20

Negli anni però la posizione del paese si è evoluta e il Giappone ha iniziato a riconoscere un suo valore intrinseco al G20. Da quando l’ex premier Abe Shinzo ha iniziato il proprio secondo mandato nel dicembre 2012, Tokyo ha assunto una posizione più propositiva a livello internazionale. Il suo governo ha preso l’iniziativa in tema sia di commercio e economia mondiale, spingendo per la firma dell’Accordo di Partenariato Economico con l’UE e prendendo la guida del Trans-Pacific Partnership dopo il ritiro statunitense da parte di Donald Trump, sia di costruzione di infrastrutture regionali di alta qualità, neppure troppo velatamente in competizione col progetto cinese della Belt and Road Initiative.

Nel quadro di questo nuovo attivismo internazionale, Tokyo ha iniziato a guardare con maggior interesse al G20 in quanto piattaforma internazionale attraverso cui proporre la propria visione di come ristrutturare le politiche globali. Ciò è risultato oltremodo evidente nella preparazione del vertice giapponese, tenutosi nel 2019 a Osaka. Durante la preparazione del summit, il Giappone ha posto sul tavolo molteplici proposte per orientare l’agenda internazionale: dagli investimenti infrastrutturali alla regolamentazione del settore fintech, dalla questione dell’inquinamento oceanico ai problemi legati alla trasformazione del mondo del lavoro operata dalle nuove tecnologie, Tokyo si è premurata di collegare il dibattito sui tavoli del G20 alla realizzazione dei Sustainable Development Goals per il 2030 formulati dall’ONU.

Ma i temi su cui Abe ha voluto puntare tutto il proprio capitale politico sono stati tre: la difesa e la promozione di un commercio mondiale libero e equo, la lotta alla crisi ambientale e, infine, la sfida posta dallo sviluppo dell’economia digitale. Su questo tema, nel forum di Davos a gennaio 2019, Abe aveva detto che la sua intenzione era quella di far sì che il G20 di Osaka fosse ricordato per aver iniziato un dibattito globale sulla regolamentazione dei dati, proponendo a sua volta il concetto di “Data Free Flow with Trust” (DFFT).

 

Il vertice di Osaka

Il G20 giapponese si è tenuto in un momento di disgregazione internazionale particolarmente evidente. In un clima di forti tensioni geopolitiche, Tokyo ha dovuto compiere uno sforzo consistente per tenere tutte le parti allo stesso tavolo a discapito delle profonde differenze che intercorrevano tra i principali protagonisti del vertice. Di conseguenza, il risultato dell’incontro è stato contraddistinto da compromessi e mediazioni.

Il tema dell’economia digitale è stato al centro della dichiarazione sul lancio dell’Osaka Track, ossia del processo di appianamento delle divergenze internazionali per favorire un regime globale di norme che dovrebbero regolare il mondo dei dati ed evitare una frammentazione in singoli regimi diversi da regione a regione. Sebbene il concetto di DFFT sia riuscita a mettere d’accordo Pechino, Washington e l’UE forse anche grazie alla sua vaghezza, alcuni paesi in via di sviluppo (India, Indonesia e Sudafrica) e interessati a proteggere il proprio mercato interno dei dati hanno deciso di non sottoscrivere la dichiarazione.

Sul tema della crisi ambientale, al G20 di Osaka si è tenuto il primo incontro ministeriale sulla transizione energetica e la crescita sostenibile, mentre Abe è riuscito a far inserire nel comunicato finale la propria visione sull’importanza dell’innovazione e del coinvolgimento del mondo imprenditoriale per consentire un circolo virtuoso tra protezione dell’ambiente e crescita. Questi risultati però sono stati messi in ombra dal fuoco incrociato tra USA e Europa sull’inclusione dell’Accordo di Parigi sul clima nel comunicato: il presidente francese Emmanuel Macron aveva detto che quella sarebbe stata la sua linea rossa mentre l’ex presidente USA Donald Trump rifiutava di firmare un documento che non rappresentasse anche la visione statunitense. Alla fine si è trovata una formula di compromesso per cui 19 paesi hanno espresso il proprio sostegno all’accordo mentre Washington giustificava il proprio ritiro per non danneggiare i lavoratori e contribuenti statunitensi.

Il tema più divisivo però è stato quello sul commercio internazionale, reso particolarmente spinoso dalla guerra dei dazi di Trump con la Cina e dalle minacce rivolte anche ai propri alleati, Giappone incluso. Nel comunicato i 20 si sono impegnati a realizzare un “free, fair, non-discriminatory, transparent, predictable and stable trade and investment environment”, con Washington che sottolineava fair e Pechino non-discriminatory. Per il secondo anno di fila, poi, la menzione dell’impegno alla lotta contro il protezionismo economico è stata rimossa dal comunicato del vertice per volere di Trump. Nonostante Abe avesse dichiarato di voler tener alta la bandiera del libero commercio, per il Giappone l’alleanza con gli USA rimane il perno fondamentale della propria posizione strategica (specialmente di fronte all’ascesa cinese) e dunque Tokyo, trovandosi in una posizione di debolezza, ha dovuto avvallare la richiesta del presidente statunitense.

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Giappone Asia g20
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AUTORI

Guido Alberto Casanova
ISPI Research Assistant

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