“Al momento l'India è in buona posizione per conquistare il centro della scena nel garantire una robusta leadership del G20”, scriveva un'analisi dell'Observer Research Foundation, il più importante think-tank di Delhi. L'ottimismo sul ruolo globale indiano nel dopo pandemia non era solo riferito all'edizione 2021 del forum intergovernativo presieduto dall'Italia ma anche a quello successivo e al 2023, quando sarà l'India a ospitarlo.
Era gennaio quando è stata pubblicata quell'analisi di ORF. Allora ad essere ottimisti erano gli analisti del think-tank, il governo indiano, tutto il paese e quasi il mondo intero. L'India era l'industria farmaceutica globale: garantiva la gran parte delle materie necessarie all'industria dei vaccini; lei stessa ne produceva al punto da donare dosi ai paesi vicini del Subcontinente, sfidando la Cina nella geopolitica del Covid. L'epidemia sembrava sotto controllo come l'economia: a fine febbraio Nirmala Sitharaman, la ministra delle Finanze, aveva presentato un bilancio dello stato più che promettente: garantiva una crescita annuale che in percentuale nemmeno la Cina aveva raggiunto negli anni Novanta del secolo passato.
Quello che è poi accaduto è parte di una cronaca quotidiana ancora oggi drammatica, causata da un approccio hubristico verso una pandemia tutt'altro che terminata; dal governo di Narendra Modi che aveva prematuramente spostato le sue priorità dal Covid alla politica, per vincere ad ogni costo elezioni in stati importanti come il West Bengal (poi perse); dalla grave inadeguatezza della struttura sanitaria nazionale, nonostante i primi successi ingannevoli; dal fondamento ideologico-religioso hindu del Bjp che spesso sovrastava il suo lato pragmatico. “Il marchio globale dell'India senza la sua spiritualità sarebbe un marchio difettoso”, ammetteva Vijay Mahajan, guru delle business school del paese. Ma sulla spiritualità usata per sostenere il suo nazionalismo hindu, a volte Modi esagera.
L'India che si presenta al G20 di quest'anno, dunque, difficilmente potrà rivendicare la robusta leadership promessa all'inizio di quest'anno. Ma resta comunque una protagonista della scena delle venti più grandi economie del globo, con il 4% del Pil mondiale e un miliardo e quasi 400 milioni di abitanti. Soprattutto perché la sua, ora, è un'ambizione internazionale nuova e crescente. Paese fondatore del Movimento dei non allineati, l'India ha sempre aderito con entusiasmo a tutte le organizzazioni multilaterali possibili, regionali e mondiali: ma più per partecipare che per guidare, non assumendosi mai le responsabilità che impone una vera e propria alleanza.
In realtà dal punto di vista indiano esiste un G20 prima di Narendra Modi e uno dopo il suo avvento al potere, nel 2014. Anno dopo anno la sua India è diventata sempre più assertiva sulla scena internazionale, attenta a cogliere i cambiamenti e ad approfittarne: dalla crisi d'identità della potenza globale americana, creando una relazione più che speciale con Donald Trump, al consolidamento della sua presenza nell'Oceano Indiano; dagli effetti della pandemia sugli equilibri geopolitici, alla crescente minaccia cinese.
Proprio riguardo a quest'ultima una importante parte della comunità internazionale si aspetta che l'India giochi un ruolo di contenimento. Ruolo che sarà richiesto in modo ancor più pressante nel governare le pericolose conseguenze del ritiro americano dall'Afghanistan, sulla stabilità e la sicurezza della regione.
Una guida per comprendere le ambizioni dell'India di Modi e le peculiarità del suo approccio è il saggio scritto recentemente dal ministro degli Esteri Subrahmanyam Jaishankar: “The India Way – Strategies for an Uncertain World” (HarperCollins, 2020). L'ambizione di giocare un ruolo più importante di quanto non fosse prima è evidente. Assomiglia molto ai progetti della Cina di Xi Jinping. Come quest'ultima, anche l'India coltiva una sicurezza di sé a volte esagerata: la certezza di aver vinto il Covid e il successivo disastro sono un esempio. Ma con un tono completamente diverso da Pechino: è come se Delhi per raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi cerchi il consenso, non lo scontro; la condivisione e non la vittoria in un confronto a somma zero: io vinco e tu perdi.
Più degli effetti della pandemia la questione importante è il confronto con le ambizioni cinesi: il Covid prima o poi passerà; la Cina riguarda il presente, l'immediato futuro e quello destinato a interessare come minimo un'intera generazione. È evidente che l'India sia stata arruolata d'ufficio nel fronte delle democrazie occidentali e asiatiche creato per contenere la sfida cinese.
Il G20, affollato di paesi illiberali, porrà l'accento su altre questioni, prediligendo economia e temi che rendono possibile una collaborazione globale sulle diversità politiche. Ma l'insistenza di Joe Biden sulle specificità democratiche nel suo primo viaggio europeo è destinata ad essere lo sfondo delle relazioni internazionali in questa prima metà del secolo. Il problema è che l'India di Narendra Modi e il crescente numero di comportamenti autoritari del suo esecutivo – verso la cospicua minoranza musulmana, per esempio – preoccupano gli alleati naturali della più popolosa democrazia al mondo.