Il Sudafrica si presenta come la Cenerentola del G20. Se si considerano le dimensioni dell’economia nazionale, infatti, il paese è l’ultimo dei 19 grandi, dietro anche all’Argentina, ed è superato, oltre che da tre paesi europei esclusi dal gruppo (Spagna, Polonia e Paesi Bassi), da una mezza dozzina di stati asiatici e da due paesi africani (Nigeria e Egitto). Le cose non cambiano se si guarda al reddito pro capite (il Sudafrica è tra i primi in Africa insieme a Egitto e Gabon, ma sprofonda oltre il numero 100 su scala globale) o alle dimensioni della sua popolazione (superata, oltre che da Nigeria ed Egitto, anche da Etiopia, Repubblica Democratica del Congo e Tanzania).
Per spiegare perché il Sudafrica sia stato chiamato fin dall’inizio a far parte del G20 e perché da allora vi abbia sempre partecipato, come unico paese africano, bisogna ritornare alle origini e alla particolare natura geopolitica di questa organizzazione. Figlio del G7 (insieme al più effimero G8), il G20 nasce e si sviluppa in occasione delle due crisi finanziarie globali del 1997 e del 2008, per la necessità di allargare e coordinare meglio una governance economica mondiale la cui direzione strategica è però destinata a rimanere appannaggio dei G7. Non è strano quindi che, insieme alle maggiori economie emergenti degli anni ’90 (Cina, Russia e India, a cui si aggiungevano allora anche Brasile e Argentina) e a big del petrolio (l’Arabia Saudita), ad essere chiamate a parteciparvi siano medie potenze con economie di mercato stabili e una lunga storia di partecipazione al commercio internazionale, come Corea del Sud, Indonesia, Messico e Turchia, e paesi con funzioni di collegamento tra le economie avanzate e i nuovi mercati in via di sviluppo, come l’Australia e lo stesso Sudafrica. Che parecchi degli invitati fossero classificabili come democrazie o apparissero avviati sul sentiero della democratizzazione non guastava.
Questo mix ponderato di considerazioni su peso economico, affinità politiche e collocazione regionale spiega anche perché il Sudafrica di Cyril Ramaphosa, figurasse, con Australia, India e Corea del Sud, tra i paesi invitati alla riunione del G7 tenutasi nel giugno scorso in Cornovaglia, in cui il nuovo presidente americano Joe Biden ha rilanciato la politica di contenimento della Cina inaugurata dal suo predecessore. Da un lato Pretoria, nonostante la bassa crescita e il perdurare degli squilibri sociali e razziali interni, può vantare tuttora l’economia più moderna, diversificata e infrastrutturata di tutto il continente africano e continua a rappresentare la porta di accesso degli investimenti esteri in gran parte dell’area subsahariana. Dall’altro, il paese è considerato l’unica “vera” democrazia dell’Africa ed è fortemente identificato con una tradizione di attivismo internazionale, iniziata con il celebre articolo su Foreign Affairs nel 1993 in cui Nelson Mandela metteva la promozione dei diritti umani e della democrazia al centro della politica estera del nuovo Sudafrica.
In questo senso, non stupisce che il Sudafrica, più di ogni altro membro del G20, abbia sempre cercato di presentarsi come il “rappresentante non eletto” della regione a cui appartiene, proponendosi come portatore delle istanze degli oltre 50 stati africani. In questo ruolo però Pretoria si è esposta a sfide e contestazioni da parte di altri paesi, che le imputano la tendenza ad allinearsi a USA e UE e a tollerare ingerenze internazionali nei casi di violazione dei diritti umani e dei principi democratici, tradendo la tradizionale solidarietà panafricana sulla difesa del principio della sovranità nazionale. Già nel 1995, reagendo alle critiche avanzate da Mandela in occasione dell’esecuzione di alcuni oppositori dell’allora presidente della Nigeria Abacha, il ministro degli esteri nigeriano non aveva esitato a definire il Sudafrica “un paese bianco con un presidente nero”.
Dall’inizio degli anni 2000, Pretoria ha cercato di compensare il mancato supporto dei suoi vicini africani con quello dei BRIC(S), la conferenza dei grandi emergenti formata da Brasile, Russia, India e Cina di cui Pretoria era stata invitata a far parte, su iniziativa di Pechino, nel 2010. Nelle proposte di riforma della governance globale avanzate dalle potenze del Sud del mondo, l’ANC, il partito al governo a Pretoria dal 1994, aveva ritrovato le antiche parole d’ordine della lotta contro l’apartheid (durante la quale aveva ricevuto l’aiuto di Cuba, Iran, Libia e Cina), la possibilità di rispolverare la sua immagine di forza antimperialista, africanista e non allineata, nonché, nell’esempio cinese, un modello di sviluppo in cui lo stato poteva tornare a svolgere un ruolo rilevante.
Come in altri paesi africani, la politica del “look East” è apparsa alle élite politiche sudafricane come un modo per recuperare autonomia dall’Occidente, dopo una fase in cui, sotto le presidenze Mandela e Mbeki, Pretoria si era impegnata fortemente per il coinvolgimento dell’Africa nell’ordine neoliberale. L’influenza cinese, divenuta più visibile con il declino dell’astro brasiliano e il ridimensionamento delle speranze poste nelle relazioni con India e Russia, ha iniziato però presto a sollevare dubbi e discussioni. I costi politici e di immagine del rapporto con Pechino hanno messo in luce la resistenza della società civile sudafricana a seguire il governo sulla strada di un riposizionamento radicale. Se le reazioni al divieto d’ingresso opposto al Dalai Lama nel 2011 hanno confermato la riluttanza dell’opinione liberale a rinunciare alla tradizionale politica pro-democratica, il boicottaggio di un cargo cinese carico di forniture militari destinate al presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, deciso nel 2007 dal sindacato dei lavoratori portuali, aveva rivelato i forti timori suscitati non soltanto dalla concorrenza portata dalla Cina alle industrie locali e agli investimenti sudafricani nel resto dell’Africa, ma anche da un modello di sviluppo basato sulla compressione dei diritti sindacali.
Di fronte a uno scenario globale investito da profonde trasformazioni, il Sudafrica continuerà a sottolineare la propria identità africana e a coltivare i suoi storici legami commerciali con l’Asia meridionale. Ma si terrà ben stretto anche il suo posto nei G20 e il rapporto privilegiato con le potenze occidentali e i paesi del Commonwealth (Regno Unito, Australia, Canada), da cui dipende in gran parte lo sviluppo della sua economia.