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La rubrica

Storia del G20, un paese alla volta: USA

Alberto Rizzi
12 novembre 2021

Non si può trattare di G20 senza parlare di Stati Uniti. Oltre ad essere la principale economia globale, con un pil nel 2020 di oltre 20mila miliardi di dollari e quasi 330 milioni di abitanti, gli Stati Uniti sono stati anche fra i principali promotori del Gruppo dei Venti. Fin dai primi anni Novanta, infatti, Washington aveva capitanato gli sforzi per allargare i fora di governance internazionale, superando il G7 ed includendo anche le economie emergenti di Asia ed America Latina, con attenzione anche a Cina e Russia. Con uno spirito tipico del momento unipolare americano, gli USA ritenevano necessario, sia per ragioni pratiche che politiche, ampliare la partecipazione alle istituzioni internazionali – sia formali sia informali – ad attori prima esclusi, per costruire un ordine globale basato sulle regole. Nel caso di quelle informali, l’allargamento si è concentrato sul G7. Se la trasformazione da G7 a G8 non ha avuto particolare fortuna, quella a G20 ha invece conosciuto un notevole successo, tanto da trasformarsi in un paio di decenni da riunione di “tecnici” a organo principale per il coordinamento globale di molte aree di policy.

 

Vent’anni di USA alla guida del G20

La storia degli USA nel Gruppo dei venti si è sviluppata sullo sfondo di tre diverse crisi, due di natura economico-finanziaria e la terza invece legata al multilateralismo e al commercio internazionale. La prima fu la crisi finanziaria asiatica iniziata nel 1997 in Thailandia, ed estesasi rapidamente a tutto il Sud Est Asiatico creando effetti anche in altre economie avanzate. Questo evento dimostrò la necessità di coordinare meglio le politiche monetarie e finanziarie non solo tra paesi sviluppati, come era stato fino ad ora nel caso del G7, ma anche includendo le economie emergenti. Gli USA di Bill Clinton spinsero, anche su iniziativa dell’allora primo ministro canadese Paul Martin, per includere i paesi emergenti nella governance globale. Nel 1999 nasceva così il G20, come riunione di ministri delle Finanze e governatori delle banche centrali e un’agenda inizialmente limitata alle questioni “tecniche”. Grazie al suo ruolo all’interno del Fondo Monetario Internazionale e all’importanza del dollaro nei mercati finanziari – oltre al mero peso economico della sua economia – Washington ricoprì fin dall’inizio una posizione di preminenza all’interno del neonato G20, costruendosi così un ruolo di facilitatore del consenso nel gruppo.

Fu un’altra crisi finanziaria, originata questa volta in casa propria, a spingere gli USA verso un salto di qualità del G20. Nel settembre 2008, dopo il collasso di Lehman Brothers e lo scoppio della più grave crisi finanziaria dai tempi della Grande depressione, la Casa Bianca, guidata da un George W. Bush in scadenza di mandato, trasformò il G20 da riunione di ministri e governatori delle banche centrali in summit di leader dei vari paesi. Riuniti a Washington il 15 novembre dello stesso anno, i capi di stato e di governo dei paesi aderenti diedero vita al G20 come lo conosciamo ora. Se l’agenda rimase inizialmente focalizzata sui temi economico-finanziari, il passaggio ad un consesso di leader politici rese possibile un maggiore coordinamento delle risposte alla crisi. Inoltre, il fatto che la discussione potesse finalmente avvenire ai massimi livelli politici permise al G20 di diventare a pieno titolo quel Global Steering Committee auspicato da Paul Martin a fine anni Novanta.

L’anno successivo, con il Summit di Pittsburgh del settembre 2009, gli USA presiedettero al complesso sforzo di transizione tra crisi finanziaria e ripresa economica, coordinando lo stimolo fiscale e monetario più grande della storia fino alla crisi del Covid-19. Da padroni di casa e principale potenza economica, gli Stati Uniti di Barack Obama seppero agire da ponte tra le diverse posizioni, soprattutto sul piano della sostenibilità del debito, ed assicurare una risposta coerente da parte del G20. Con il rafforzarsi della ripresa economica e la congiuntura favorevole, la presidenza Obama portò nuove tematiche all’attenzione del Gruppo dei Venti, concentrandosi in particolare sui cambiamenti climatici e la necessità di coordinare le strategie ambientali, l’eguaglianza di genere, sia dal punto di vista salariale sia occupazionale, ed i temi del commercio internazionale. Infine, l’emergere del cosiddetto Stato islamico in Iraq e Siria aggiunse all’agenda del G20 anche la lotta al terrorismo ed il contrasto ai suoi canali globali di finanziamento, uno dei punti principali al Summit di Antalya del 2015.

 

Da Trump a Biden: ritorno al futuro

La terza crisi della storia USA nel G20 è quella rappresentata dall’arrivo di Donald Trump e dal mutato atteggiamento americano nei confronti dei fora internazionali. Seppur alcune tensioni fossero già presenti in precedenza, soprattutto quella commerciale con la questione del deficit americano, l’ascesa del tycoon newyorkese alla Casa Bianca ha costituito una cesura nella partecipazione americana al G20. Sotto Trump, non solo gli USA hanno temporaneamente abdicato al ruolo di leadership e di ricerca del consenso, ma sono addirittura divenuti i principali fautori di diverse spaccature. Da tradizionali sostenitori del libero scambio e della necessità di agire per ridurre i cambiamenti climatici, gli USA divennero protagonisti di una rottura con il resto del Gruppo dei Venti: distanziandosi non solo dalla Cina, ma anche dagli alleati europei. Al summit del 2018 a Buenos Aires, in un evento senza precedenti, gli USA non sottoscrissero il communiqué finale, portando alcuni analisti a definire l’era Trump come quella del “G19+1”.

Con l’elezione di Joe Biden nel novembre 2020, l’approccio americano al Gruppo dei Venti è tornato, almeno in parte, quello tradizionale. Se infatti sul fronte commerciale le tensioni all’interno del G20 (soprattutto tra Cina e USA) restano importanti, nel lungo percorso verso il summit di Roma di quest’anno, Biden si è speso fortemente per raggiungere una posizione comune su diverse questioni globali. Prima fra tutte, l’istituzione di una tassazione minima comune per le multinazionali, resa possibile proprio grazie al sostegno e allo sforzo diplomatico USA. Per combattere la pandemia e rafforzare una ripresa più equa, gli USA hanno spinto poi il G20 a nuovi impegni sulla fornitura di vaccini anti-covid ai paesi più poveri e l’estensione della Debt Service Suspension Initiative. La maggior parte dei temi climatici sono invece discussi a Glasgow nell’ambito di COP26, ma gli Stati Uniti hanno dato nuovo slancio ai negoziati sul tema, superando lo scetticismo dell’amministrazione precedente verso le problematiche ambientali. Pur con risultati altalenanti e qualche criticità, gli USA di Biden sono tornati a svolgere all’interno del G20 quel ruolo fondamentale di mediatori e di facilitatori del consenso interno che nessun altro membro del Gruppo dei Venti può, o intende, ricoprire.

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AUTORI

Alberto Rizzi
Osservatorio geoeconomia ISPI

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