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Commentary

Strange bedfellows? Accordi di Ginevra, Iran e le prospettive della politica statunitense

11 Dicembre 2013

È ancora presto per capire se l’accordo raggiunto il 24 novembre 2013 porterà a una soluzione effettiva dell’annoso dilemma del nucleare iraniano. Un risultato importante sembra comunque averlo conseguito, dando respiro a un’amministrazione – quella di Barack Obama – che nelle settimane precedenti era parsa arrancare sotto il peso delle difficoltà interne e internazionali. Già all’inizio del secondo mandato, l’arduo iter di conferma del Segretario alla Difesa in pectore, Chuck Hagel, aveva dato al mondo (e, soprattutto, all’opinione pubblica interna) l’immagine di un presidente assai lontano dai fasti del suo primo insediamento. Nei mesi successivi, l’esplodere del caso Snowden, lo scontro con il Congresso sulla questione del bilancio federale e lo shutdown dell’ottobre 2013, il complesso (e per vari aspetti deludente) avvio del nuovo sistema di assistenza sanitaria “pubblica” voluto dal presidente (“Obamacare”) e il riemergere, con la vicenda “Datagate”, dei dubbi e delle preoccupazioni che già avevano intaccato l’immagine dei servizi d’informazione statunitensi, avevano contribuito a rafforzare questa impressione. Le incertezze reali o apparenti nel campo della politica estera, a partire da quelle che hanno caratterizzato la gestione del dossier siriano nelle fasi più acute della crisi, hanno anch’esse concorso ad alimentare il processo, solo in parte – e non senza ambiguità – compensate da una parte proprio dalle aperture negoziali verso Teheran annunciate dal vicepresidente Biden nel corso della “Wehrkunde 2013”, dall’altra dalla gestione “di basso profilo” ma tutto sommato efficace delle tensioni innescate dalle iniziative militari nord-coreane fra la fine di marzo e gli inizi di aprile.
Pur senza sgombrare il campo da tutte le incertezze, il successo negoziale di Ginevra ridimensiona alquanto la portata di questi avvenimenti, aprendo all’amministrazione USA spazi di manovra in parte inattesi, le cui implicazioni restano in buona parte da definire. Il consolidamento del rapporto con la nuova leadership iraniana e l’implicito riconoscimento del ruolo di Teheran che esso comporta, rilanciano, infatti, l’azione di Washington in un vasto scacchiere, che si estende dall’Afghanistan fino alle coste del Mediterraneo, dove l’influenza della repubblica islamica è penetrata grazie al ruolo giocato – direttamente o indirettamente – nelle vicende siriane e libanesi. Oggi l’Iran rappresenta un attore centrale per la possibile composizione politico-diplomatica della crisi in corso in Siria, crisi in cui l’amministrazione Obama ha ripetutamente dimostrato scarsa disponibilità a farsi coinvolgere. Allo stesso modo, l’Iran rappresenta, oggi, un importante elemento per la stabilizzazione dell’Afghanistan, e il potenziale equilibratore delle forze sunnite presenti nel paese; tutto ciò in un momento in cui l’imminente fine della missione ISAF e il parallelo ridimensionamento della presenza miliare statunitense schiudono scenari non del tutto rassicuranti sulla tenuta sociale e politica di una realtà in cui le tensioni particolaristiche paiono avere ripreso forza[1]. Nello scacchiere del Golfo, infine, l’Iran potrebbe rappresentare il contrappeso di un’Arabia Saudita i cui rapporti con Washington sembrano avere sperimentato – specie negli ultimi mesi – un sensibile deterioramento, attestato da ultimo dall’esplicito rifiuto di Riyadh ad accettare il seggio di membro non permanente nel Consiglio di Sicurezza ONU[2].
A fronte di questi possibili benefici, la reazione negativa del governo israeliano (peraltro scontata) appare un prezzo accettabile da pagare, anche tenuto conto delle ricadute che essa è destinata a comportare sia sugli indici di gradimento del presidente sia sui delicati equilibri congressuali. Già da tempo, i rapporti fra Obama e le autorità di Gerusalemme sono improntati a una certa freddezza, in larga misura dovuta proprio ai colloqui della Casa Bianca con la controparte iraniana[3]. Tuttavia, non si può fare a meno di osservare come alle dure prese di posizione del governo dello stato ebraico abbia fatto riscontro un comportamento assai più moderato, se non apertamente attendista. Occorre inoltre osservare come, nonostante le ovvie differenze, Israele e Iran condividano almeno alcune priorità, prima fra tutte quella a evitare un’alterazione eccessiva degli equilibri siriani. Di converso, la stipula del nuclear deal non sembra destinata a condizionare la posizione degli Stati Uniti sulla questione dei rapporti israelo-palestinesi, né a preludere a una volontà dell’amministrazione d’impegnarsi con maggiore determinazione su tale punto. Alla luce di quelle che appaiono le attuali priorità statunitensi, sembra difficile pensare che gli accordi di Ginevra mirino a spianare la strada a un rinnovato attivismo statunitense nella regione e, in particolare, a un loro eventuale impegno nell’intrattabile – e apparentemente improduttivo – sforzo di trovare una soluzione stabile alla vexata questio mediorientale. Al contrario, essi sembrano piuttosto inserirsi nella strategia di ripiegamento (meglio: rischieramento) che proprio Obama ha inaugurato all’avvio del suo primo mandato e che negli ultimi mesi sembra essersi consolidata.
Ovviamente, questo approccio comporta una serie di incognite. Da una parte, è centrale la posizione che il Congresso deciderà di assumere; non a caso, l’accordo è già stato fatto segno di un fuoco incrociato di critiche, sia per le sue ricadute in campo internazionale, sia per le sue (presunte?) finalità interne, come quella che gli è stata attribuita di mirare a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica interna da questioni ritenute più serie[4]. Dall’altra parte, ugualmente centrale è l’atteggiamento che decideranno di assumere le autorità iraniane; non solo – e, forse, non tanto – il presidente Rouhani (che nella tenuta del nuclear deal trova un puntello per consolidare propria posizione), quanto anche la galassia di centri di potere che struttura il sistema politico della Repubblica Islamica. In questo senso, i nuovi toni della propaganda sia verso Washington, sia verso Gerusalemme, ben lontani dal registro incendiario degli anni di Ahmadinejad, sono un segnale importante, ma niente di più. Com’è stato osservato, il giudizio su Hassan Rouhani – se rappresenti o meno il futuro “Gorbachev persiano” – rimane tuttora in sospeso[5]. Infine, non meno centrale risulta l’atteggiamento che sceglierà di assumere la comunità internazionale nel suo insieme, primo fra tutti il blocco dei cosiddetti “P5+1” con il quale l’accordo è stato negoziato, e all’interno del quale – dopo l’euforia dei primi momenti – sembrano avere già iniziato ad affiorare le prime spaccature. A tale proposito, le rigidità della Francia nel corso delle trattative – che, a un certo punto, avevano fatto scorgere in Parigi il principale ostacolo sulla via dell’accordo[6] – sono un chiaro segno dell’emergere di nuovi soggetti, tesi a giocare un ruolo più attivo nella definizione degli equilibri regionali.
Cosa cambia, quindi, per Washington, con la sigla del “Joint Plan of Action”? Di certo, essa rappresenta un’iniezione di credibilità per un’amministrazione che, specie nei suoi primi anni di vita, ha vissuto momenti migliori dell’attuale. Essa rappresenta, inoltre, un nuovo passo sulla via di un understretching che il presidente Obama e il suo entourage paiono sempre più intenzionati a perseguire. In questa prospettiva, “richiamare” l’Iran nello spazio (geo)politico del “Grande Medio Oriente” significa scommettere sulla sua capacità di agire come un fattore di stabilizzazione dopo il sostanziale fallimento delle politiche di isolamento/marginalizzazione sinora perseguite. Allo stesso modo, significa gettare le basi per liberare risorse – in modo diretto o indiretto – da impiegare in altri teatri, rafforzando la credibilità degli Stati Uniti come “onesto sensale” e rilanciandone l’azione diplomatica, coerentemente con i principi “multilateralisti” che avevano ispirato (almeno sul piano dell’enunciazione pubblica) il primo mandato del presidente. Si tratta di una scommessa per molti aspetti azzardata. Soprattutto, si tratta di una scommessa il cui esito finale è legato a una molteplicità di fattori che sfuggono al controllo immediato della Casa Bianca. Si tratta, tuttavia, anche di una scommessa dal buon esito della quale dipende, in larga misura, la possibilità di procedere a un credibile riorientamento della politica estera statunitense, capace d’integrare le priorità tradizionalmente associate allo scenario mediorientale (tutela della sicurezza militare d’Israele; garanzia della stabilità regionale; protezione delle forniture energetiche...) con quelli che sono come sempre più chiaramente percepiti come i futuri orizzonti “asiatici” del paese.
[1]Cfr., ad es., Afghan Loya Jirga Endorses Security Pact With U.S., But Karzai Demurs, Radio Free Europe - Radio Liberty, 29 novembre 2013, http://www.rferl.org/content/afghanistan-us-jirga-security-deal-approved... (accesso: 29.11.2013).
[2]N. LOCATELLI, Il no dell’Arabia Saudita all’Onu è uno schiaffo agli Usa, «Limes. Rivista Italiana di Geopolitica», 18 ottobre 2013, http://temi.repubblica.it/limes/il-no-dellarabia-saudita-allonu-e-uno-sc... (accesso: 29.11.2013).
[3]D. DAGONI, Israel to mend US relations after Iran failure, «Globes», 25 novembre 2013, http://www.globes.co.il/serveen/globes/docview.asp?did=1000896565 (accesso: 29.11.2013).
[4] D. MARTOSKO, ‘Tough talk and bluster may be the easy thing to do’: Obama defends Iran nuclear deal in face of criticism that he gave too much away in exchange for too little, «The Daily Mail», 26 novembre 2013, http://www.dailymail.co.uk/news/article-2513644/Obama-forced-defend-Iran...(accesso: 29.11.2013).
[5] S. KOTKIN, Rouhani’s Gorbachev Moment, «Foreign Affairs», 24 novembre 2013, http://www.foreignaffairs.com/articles/140287/stephen-kotkin/rouhanis-go... (accesso: 29.11.2013).
[6] J. SHAPIRO, Lauded – And Blamed – For Diplomacy’s Failure, France Takes Center Stage In Iran Talks, The Brookings Institution, 11 novembre 2013, http://www.brookings.edu/blogs/iran-at-saban/posts/2013/11/11-france-ira... (accesso: 29.11.2013); S. MILLER LLANA, French exceptionalism? Why France scuttled Iran nuclear agreement, «Christian Science Monitor», 11 novembre 2013, http://www.csmonitor.com/World/Europe/2013/1111/French-exceptionalism-Wh... (accesso: 29.11.2013); Y. BUTT, France Apparently Screwed Up The Iran Nuclear Deal For Selfish Reasons, «Business Insider», 14 novembre 2013, http://www.businessinsider.com/why-france-vetoed-the-iran-nuclear-deal-2... (accesso: 29.11.2013); contra cfr., ad es., S. RANDJBAR-DAEMI, Iran talks end in failure but France is not the only culprit, «The Conversation», 12 novembre 2013, http://theconversation.com/iran-talks-end-in-failure-but-france-is-not-t... (accesso: 29.11.2013).

Gianluca Pastori, professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

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