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USA-CINA

Strategie di investimenti in gioco

Aldo Pigoli
|
Massimiliano Frenza Maxia
22 aprile 2022

Le diverse amministrazioni americane che si sono succedute negli ultimi decenni si sono costantemente impegnate in strategie di contenimento geopolitico e geoeconomico della Cina. Tali dossier continuano a rappresentare il principale focus della politica estera di Washington, anche in queste settimane in cui apparentemente la crisi ucraina sembra aver riportato la Russia al centro delle attenzioni. La guerra in Ucraina non sposta quindi le priorità ma, semmai, rappresenta per l’amministrazione Biden un teatro regionale in cui giocare la partita geoeconomica globale con la Cina.

 

Cinquant’anni di relazioni, interconnessioni e competizione

L’idea del containment cinese non è certamente nuova alla Casa Bianca. Sin dal conflitto in Vietnam, tale strategia ha visto alternarsi momenti di tensione, con particolare attenzione alle dinamiche di sicurezza legate alla penisola indocinese e alla questione di Taiwan, a significative aperture al dialogo, come nel caso della visita di Nixon a Pechino nel 1974 e all’avvio di relazioni diplomatiche tra i due Paesi. La Repubblica Popolare Cinese, tuttavia, almeno fino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, ha rappresentato per Washington una preoccupazione, se non secondaria, comunque subordinata alle priorità della contrapposizione bipolare.

Contemporaneamente alla fine della Guerra Fredda, i legami economici sino-statunitensi hanno progressivamente preso il largo, portando a una sempre maggiore interconnessione commerciale e finanziaria. Nel 2001, l’inizio della comune guerra al terrorismo internazionale e il contemporaneo accesso della Cina nel WTO sembravano preludere a un rafforzamento della partnership politico-economica. Tuttavia, già a partire dalla Presidenza di George W. Bush, la crescita economica e politica della Cina è diventata via via sempre più oggetto dell’attenzione della Casa Bianca; sotto i Repubblicani come sotto i Democratici, il gigante asiatico ha iniziato a essere sempre più percepito come il grande competitor statunitense a livello globale, come evidente anche leggendo le direttive di National Security Strategy (NSS) che si sono susseguite negli anni e che hanno visto progressivamente aumentare l’attenzione e lo spazio dedicati al Dragone. Le Amministrazioni di Barack Obama e di Donald J. Trump, sebbene con modalità e toni diversi, hanno entrambe sviluppato iniziative volte ad affrontare, spesso in maniera reattiva e non propositiva, la crescita geopolitica e geoeconomica cinese.

In parallelo alle preoccupazioni legate alla crescente capacità militare cinese, a interessare le autorità statunitensi sono state l’espansione commerciale e l’estensione dell’area di influenza cinese in Asia, Africa e America Latina, nonché lo squilibrio commerciale generato dall’azione cinese. Da questo punto di vista, per le leadership di Washington hanno assunto sempre più consistenza le preoccupazione circa le “pratiche commerciali sleali che rafforzano le industrie nazionali cinesi a scapito del libero scambio e della stabilità globale” e la predisposizione ai “furti di proprietà intellettuale degli Stati Uniti per un valore di centinaia di miliardi di dollari”

Auspicando che la competizione strategica USA-Cina non travalichi sul piano militare, appare chiaro come sia quello economico-finanziario l’ambito su cui l’attuale presidenza Biden, in continuità con le amministrazioni precedenti, perseguirà la competizione strategica con Pechino, in un’ottica sempre più geoeconomica.

 

Contrastare il soft-power economico. La strategia di Trump

A Washington sanno bene che l’arma che maggiormente ha giovato all’espansionismo cinese nell’ultimo ventennio è il soft power e che la Belt and Road Initiative (BRI), raccontata come un “regalo al mondo”, ne sta rappresentando la punta di diamante. Partendo da tale presupposto, già l’amministrazione Trump, nel novembre del 2018, si era impegnata a lanciare il Better Utilization of Investment Leading to Development (BUILD) Act, impegnandosi per la creazione di un nuovo ente, l’International Development Finance Corporation (DFC), che andava a incorporare la Overseas Private Investment Corporation (OPIC), la Development Credit Authority (DCA) e la United States Agency for International Development (USAID), fondendo assieme cooperazione allo sviluppo e supporto all’internazionalizzazione delle aziende statunitensi. Tale pacchetto di iniziative doveva servire anche a recuperare la disillusione seguita all’annuncio di un nuovo impegno americano avvenuto nell’ambito dell’Indo Pacific Business Forum nell’estate dello stesso anno, che non sortì l’effetto sperato, anche e soprattutto in ragione dell’esiguità degli investimenti promessi, limitati a soli 113 milioni di dollari.

Dal punto di vista concreto il BUILD Act raddoppiava la capacità di spesa dell’ex OPIC, portandola a circa 60 miliardi di dollari, agevolando la collaborazione con investitori privati a progetti di sviluppo infrastrutturale di significativo valore geopolitico a livello internazionale. Altro elemento forte dell’iniziativa sarebbe stata la capacità del DFC di assumere su sé stessa un più elevato grado di rischio finanziario, agevolando gli investitori privati a co-impegnarsi in investimenti in aree in cui il rischio politico le scoraggerebbe, come nel caso del continente africano, attraverso il programma Prosper Africa. Ulteriori punti forti dell’iniziativa sarebbero stati la capacità del DFC di impegnarsi direttamente in mega progetti dal valore simbolico e di favorire il finanziamento di infrastrutture digitali, ambito in cui anche la Cina è fortemente impegnata.

 

Dal Build Act al B3W di Biden

Il sopraggiungere della presidenza Biden e l’uscita degli USA dall’isolamento auto imposto dalla policy trumpiana di “America First” ha favorito la proposta statunitense, portata al G7 del giugno del 2021, per il lancio dell’ambizioso programma Build Back Better World (B3W), “un'iniziativa indirizzata a soddisfare le enormi esigenze infrastrutturali dei paesi a basso e medio reddito” (Cfr.), ovvero la promessa di ingenti investimenti per finanziare progetti e fare concorrenza alla BRI, con un occhio alle tematiche ESG, tramite una "partnership infrastrutturale basata su valori, standard elevati e trasparenti" e quindi, in ultima istanza, attraverso un invito di compartecipazione agli investitori privati.

Può il B3W realmente competere con la BRI? La domanda se la sono posta molti analisti, e probabilmente la risposta è no. La BRI, essendo finanziata da banche statali con accordi bilaterali basati sulla logica di finanziamenti in cambio di concessioni, forte anche del vantaggio competitivo dato dal basso costo del lavoro, rimane probabilmente difficilmente contrastabile. Inoltre, il sistema di accordi e investimenti che fanno capo alla BRI è caratterizzato da una sostanziale mancanza di trasparenza che, oltre a limitare la capacità di analisi e di previsione sull’evoluzione degli stessi, non permette un’adeguata competizione da parte dei competitors, USA in primis. È molto più probabile che la limitazione agli investimenti sulla BRI sia causata dalla volontà cinese, come emerso dal calo degli stessi successivo al picco raggiunto nel 2016. Lì invece dove il B3W può fare meglio è sulla capacità di attrarre investimenti privati, cosa che la BRI non ha saputo fare in maniera efficace, né rispetto ai capitali esteri (ad esempio è mancato il coinvolgimento dei grandi fondi pensione europei e americani), né rispetto agli investimenti privati di provenienza cinese.

 

Arruolare i capitali privati: la sfida di Biden

Le autorità di Washington sanno bene che, per le ragioni sin qui esposte, il contrasto della BRI può avvenire solo “arruolando” capitali privati, ovvero “il luogo in cui risiede la maggiore potenza di fuoco non ancora sfruttata”. Fondi pensione, fondi comuni di investimento, compagnie assicurative e fondi sovrani sono tutti alla ricerca di rendimenti affidabili che i mercati emergenti possono mettere a disposizione. Tali entità, amministrano a livello globale oltre 110 mila miliardi di dollari, vale a dire oltre 16 volte il budget federale degli Stati Uniti nel 2020. Questa massa di denaro è costantemente alla ricerca di investimenti redditizi; tuttavia, il livello di rischio reale e percepito, quando si parla di investimenti in Paesi non OCSE, rappresenta un freno significativo: nel periodo 2015-19, gli investimenti da capitale privato in progetti infrastrutturali nei Paesi emergenti sono ammontati a “soli” 22 miliardi di dollari

Il freno alle aspirazioni di Biden, almeno sino ad oggi è venuto da una serie di fattori oggettivi. Tra questi non vi sono solo il rischio politico e di posizione, i cui impatti sono stati nuovamente messi in evidenza dall’attuale crisi ucraina, con gli effetti “anti-business” conseguenti al conflitto militare, alle sanzioni economico-finanziarie contro Mosca e al rischio di esproprio da parte russa. Il limite maggiore all’iniziativa statunitense di creare un’alternativa alla BRI risiede soprattutto nel fatto che gli investitori privati, in particolare i fondi speculativi, sono maggiormente orientati verso investimenti il cui orizzonte temporale di ritorno atteso si colloca sul breve periodo. Diversamente, gli investimenti in infrastrutture sono caratterizzati da cicli più lunghi e ritorni attesi meno allettanti, circostanza che ha sfavorito il finanziamento della BRI e che rischia di inibire anche il progetto del B3W. Inoltre, non bisogna sottovalutare che negli ultimi anni la tendenza a legare ai principi ESG le strategie di investimento di banche d’affari, fondi privati e sovrani, ha posto sempre più in luce le criticità legate agli investimenti infrastrutturali nei Paesi emergenti, dove spesso esiste ancora opacità a livello normativo e regolamentare.

 

Hedge Fund e Venture Capital: più Cina che BRI

Al contrario gli investimenti privati, soprattutto quelli statunitensi, pur tenendosi distanti dal cavalcare la BRI, continuano a essere fortemente attratti dal mercato cinese. In questo ambito, pur confrontandosi con il rischio politico legato alla grande operazione di normalizzazione dei big tech cinesi e dell’immobiliare, con conseguente repressione normativa lanciata da Xi Jinping, che ha provocato forti impatti sui ritorni attesi, Hedge Fund e Venture Capital attivi sul mercato cinese hanno iniziato un’opera di riposizionamento verso settori dell’economia cinese a maggiore redditività attesa e su cui il regolatore cinese, per ragioni di opportunità, ha un atteggiamento più lasso. In particolare, i fondi speculativi hanno alleggerito le posizioni sulle società internet classiche (ad esempio nel campo dell’e-commerce, come per Alibaba del magnate Jack Ma), per riposizionarsi verso società attive nell’industria dei semiconduttori e delle energie rinnovabili.

Così come per i fondi speculativi, la Cina e non la BRI, continua a essere un mercato interessante anche per le grandi banche americane. Tra l’estate e l’autunno del 2021, Citigroup, JP Morgan Chase e Goldman Sachs hanno ottenuto il via libera dalle autorità cinesi affinché potessero iniziare a operare in Cina con l’obiettivo di contribuire con il proprio know-how alla trasformazione in termini di maturità dei mercati dei capitali. In particolare, le banche statunitensi saranno impegnate in operazioni di investment banking a Hong Kong e in Cina, partecipando ai mercati dei capitali azionari cinesi, così come al business dei pagamenti, della custodia e dell’offerta di prodotti bancari di investimento. Non si tratterà quindi di sole Initial Public Offerings (IPO), ambito in cui la statunitense Securities and Exchange Commission (SEC) ha recentemente imposto forti limitazioni verso le società cinesi desiderose di quotarsi.   

Le ricadute della crisi ucraina

L’aggressione della Russia all’Ucraina rischia di rappresentare un game changer a livello geoeconomico che, paradossalmente, entrambi i contendenti, USA e Cina, avranno la tentazione di utilizzare a proprio favore.

Da un lato gli USA che, imponendo le dure sanzioni contro Mosca, hanno nei fatti condizionato anche le politiche di sviluppo cinesi, dall’altro la Cina che potrebbe decidere che si è presentata l’occasione irripetibile per tentare di superare il sistema basato sul predominio del dollaro statunitense, come moneta leader per gli scambi internazionali. Il superamento del sistema Swift è peraltro nelle intenzioni cinesi e in quella direzione va il lancio dello Yuan digitale; tuttavia la contingenza attuale rappresenta probabilmente per la Cina una pericolosa accelerazione.

Vista dal lato cinese, la partita appare infatti complessa: il mercato finanziario ha subito forte volatilità a causa della crisi ucraina, con significative fughe di capitali; anche la BRI, causa interruzioni delle comunicazioni e dei trasporti, ha subito un forte rallentamento.

Vi è poi la partita dei rapporti commerciali. La Cina rappresenta il 18,7% del Pil globale e il 14,2% nelle esportazioni (dati Fidelity International). Se in ambito ASEAN, la principale area di libero scambio al mondo, prevale un atteggiamento neutrale nei confronti della crisi ucraina, il principale partner economico-finanziario, ossia gli USA, e quello che dovrebbe diventare il principale mercato di sbocco dei prodotti e servizi cinesi grazie allo sviluppo della BRI, ovvero l’UE, chiedono a Pechino una chiara posizione di condanna dell’aggressione russa. Se la crisi ucraina dovesse perdurare, le autorità cinesi non potrebbero cavarsela ancora a lungo con generici richiami al pacifismo e al dialogo, né potranno pensare di aiutare la Russia sottobanco senza incorrere nelle sanzioni extraterritoriali occidentali.

A riprova di ciò vi è l’ammissione di Qin Gang, ambasciatore cinese negli Stati Uniti, che in un articolo apparso recentemente sul Washington Post, ha affermato che la Cina avrebbe fatto del suo meglio per prevenire la guerra in Ucraina se ne fosse stata a conoscenza. Tale ammissione suggerisce due cose: la Cina sta perdendo la pazienza con Putin ed è preoccupata per le ricadute sul proprio Pil. D’altronde, nelle appena concluse “Due sessioni” della Conferenza politica consultiva del popolo cinese del Congresso nazionale del Popolo, è stato confermato l’obiettivo Pil più basso degli ultimi tre decenni, ovvero 5,5% per il 2022 che, per stessa ammissione del premier uscente Li Keqiang, non sarà comunque facile da raggiungere, anche in ragione della crisi ucraina.

 

L’impatto della guerra in ucraina sulle riserve valutarie cinesi

Secondo dati riportati dal South China Morning Post, le partecipazioni estere sulle obbligazioni cinesi sono diminuite di 80 miliardi di yuan (12,6 miliardi di dollari) a febbraio, dopo che per trenta mesi consecutivi erano aumentate. Tale dato è ulteriormente peggiorato a marzo quando la diminuzione è arrivata a 25,8 miliardi di dollari a causa dei grandi deflussi e alla volatilità su azioni e obbligazioni, in particolare sul debito russo, a seguito dell'invasione dell'Ucraina e alle tensioni sui mercati dei cambi che hanno investito lo Yuan.

A spiegare il dato particolarmente negativo ci sarebbero le politiche monetarie adottate a livello mondiale per contrastare l’inflazione, la situazione geopolitica (leggasi, crisi ucraina) e le nuove restrizioni dettate dal coronavirus (in particolare nell’area di Shanghai). Tali fluttuazioni secondo le autorità cinesi rappresentano una contingenza di breve termine, e non un'inversione della tendenza a lungo termine degli investimenti esteri nel mercato dei capitali cinese. Nonostante ciò, è indubbio che l’economia cinese stia subendo la crisi nell’Est Europa. Ulteriore preoccupazione, secondo Bloomberg, proviene dai 140 miliardi di dollari di partecipazioni obbligazionarie cinesi detenute dalla Russia, un quarto della proprietà straniera nel mercato obbligazionario nazionale cinese, masse che potrebbero far comodo alla Russia per aggirare le sanzioni e attingere alla liquidità necessaria per le spese di guerra.

Di contro, se da un lato le sanzioni USA contro la Russia potrebbero colpire anche Pechino e nonostante la grande volatilità in atto, il grande surplus commerciale cinese ha necessità di investire in attività estere e le obbligazioni statunitensi rappresentano uno sfogo irrinunciabile.

 

Business is business

Abusando di una frase fatta, “business is business”, appare evidente come la finanza internazionale e quella statunitense in particolare non sembrano voler assumere posizioni patriottiche. Per le ragioni sin qui esposte, le realtà finanziarie a stelle e strisce non hanno guardato alla BRI come potenziale iniziativa target e rischiano di fare altrettanto con il B3W. Allo stesso modo, nonostante le tensioni USA-Cina, esse continuano a guardare allo sviluppo del mercato finanziario interno cinese come la più importante opportunità in termini di sviluppo ad oggi presente sui mercati.

Tuttavia, all’orizzonte si nasconde, non ben camuffato, il rischio che, come emerso con le big tech interne, una volta raggiunti gli obiettivi, le autorità cinesi potrebbero reintrodurre regolamentazioni stringenti capaci di vanificare gli investimenti, applicando la propria versione di “strategic capitalism”.

A ciò vanno ad aggiungersi le tensioni provocate sui mercati e sull’economia globale dall’esplodere della crisi ucraina, che hanno minato l’appetibilità di tutta una serie di società cinesi che vedono una parte della propria redditività legata alle interazioni commerciali sia con la Russia che con l’Ucraina, Paesi entrambi partner della BRI.

Lo scoppio della guerra in Ucraina ha probabilmente accelerato un processo già in atto di riassetto dell’ordine economico e forse politico mondiale. Resta da capire se la crisi attuale sia figlia della contingenza e quindi reversibile al verificarsi di una de-escalation, oppure capace di influenzare drasticamente e definitivamente l'ordine economico globale. Andando avanti, sia la Cina che gli USA potrebbero ripensare e riorientare i propri rispettivi piani infrastrutturali e di investimenti.

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