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Commentary

Sud Sudan: le radici di una crisi a intermittenza

Sara de Simone
20 luglio 2016

Il quinto anniversario dell'indipendenza del Sud Sudan è trascorso, ancora una volta, in un clima di tensione altissima e scontri tra l'esercito governativo Sudan People's Liberation Army (SPLA) e i ribelli dell'SPLA-In-Opposition (IO). La cronaca dell'escalation resta confusa: sembra che il 7 luglio, a due giorni dall'anniversario, uno scontro a fuoco tra soldati governativi e membri dell'SPLA-IO abbia ucciso cinque soldati. Forse in segno di vendetta, o forse su ordine di qualche generale potente dell'esercito governativo, nuovi scontri, avvenuti il giorno successivo nei pressi del palazzo presidenziale dove era in atto una conferenza stampa congiunta della Presidenza della Repubblica, hanno provocato centocinquanta morti, sterminando gli uomini della scorta dell'ex-capo dell'opposizione e attuale Vice-Presidente Riek Machar. Dopo un giorno di calma apparente, il 10 luglio gli scontri sono ripresi in varie aree della capitale, provocando un bilancio approssimativo di 300 vittime e circa 40.000 sfollati. Nonostante i disordini si siano estesi anche ad altre aree del paese, non ci sono dati affidabili sul loro impatto immediato sulla popolazione civile. Questi eventi ci ricordano, ancora una volta, quanto il neo-nato Stato sud sudanese si fondi su equilibri politici estremamente precari, e quanto intricata sia la rete di ragioni che provoca queste esplosioni di violenza.

Il Sud Sudan nasce come stato indipendente il 9 luglio 2011, dopo un referendum nel quale il 98,8% della popolazione ha votato a favore della secessione dal Sudan. Il referendum era parte di un accordo di pace, il Comprehensive Peace Agreement, che aveva posto fine a 22 anni di guerra civile tra il governo di Khartoum e il movimento ribelle Sudan People's Liberation Movement/Army. Grazie a un ingente sostegno da parte della comunità internazionale, l'SPLM, sotto la guida dell'attuale presidente Salva Kiir Mayardit, si è trasformato in partito di governo, occupando di fatto tutti i gangli istituzionali dello Stato, incluso l'esercito (che viene tutt'ora identificato come SPLA).  

L'SPLM/A, però, non era mai stato un movimento coeso: anche durante la guerra, aveva vissuto numerose spaccature e scissioni più o meno radicali, spesso su base etnica, in molti casi poi riassorbite nei primi anni 2000, quando era ormai nell'aria la firma dell'accordo di pace e i leader scissionisti cercavano di risalire su quello che era diventato, ai loro occhi, un cavallo vincente per essere inclusi nella spartizione di potere e risorse. Uno dei più influenti tra questi leader, Riek Machar Teny, venne nominato Vice-Presidente del governo transitorio del Sud Sudan dal 2005 al 2010 e poi Vice-Presidente del Sud Sudan indipendente nel 2011.

Machar è solo il più eclatante degli esempi di una politica molto più pervasiva che l'SPLM ha messo in atto a partire dal 2005: una politica di cooptazione nella struttura statale e militare di tutti coloro che avrebbero potuto rappresentare una minaccia per la pace e la stabilità del neo-nato governo. Questa politica ha ricevuto di fatto l'avallo della comunità internazionale, che non ha mai insistito sulla necessità di concentrarsi su processi di riconciliazione se non a livello micro-locale, senza mai coinvolgere nessuno degli esponenti dell'élite di governo. Al contrario, il sostegno di numerose organizzazioni e agenzie di sviluppo internazionali si è concentrato sulla costruzione della struttura statale e sulla creazione di governi locali, sulla base dell'assunto, poco dimostrabile nella pratica, che il decentramento portasse automaticamente ad un aumento dell’inclusività dell'azione governativa e una maggiore efficacia ed efficienza nell'amministrazione delle risorse. Questo approccio, concepito in modo molto tecnico attraverso il sostegno alla creazione di istituzioni e alla produzione di leggi che rispecchiassero i dettami dello stato moderno di impronta weberiana, è in realtà stato appropriato e manipolato dall'elite governativa sud sudanese, che ha trasformato la creazione di governi locali in uno strumento di patronage politico capace di assorbire un numero maggiore di potenziali spoiler del processo di pace.  

Nel 2013, tuttavia, dopo un anno di crisi economica, causata, in parte, dalla decisione di sospendere l'estrazione di petrolio come forma di ritorsione nei confronti del governo sudanese, questo sistema non ha più retto. In una situazione che Alex de Waal ha definito "cleptocrazia in bancarotta", la tensione tra le fazioni interne all'SPLM è andata aumentando in un crescendo di azioni politiche (rimozione di personaggi chiave da posizioni di potere, incluso Machar, dichiarazioni di condanna nei confronti del governo, minacce di sfide elettorali sia alla presidenza che alla leadership del partito) e militari (scontri in varie parti del paese tra esercito governativo e milizie locali). Nel dicembre 2013, tre giorni di scontri nella capitale cominciati come conflitto tra due fazioni della guardia presidenziale e trasformatisi poi in un massacro subito dalla comunità nuer, hanno segnato l'inizio di una nuova sanguinosa guerra civile tra il governo del Sud Sudan, guidato da Salva Kiir, un dinka della regione del Bahr el Ghazal, e i ribelli dell'SPLA-IO, guidato da Riek Machar, un nuer della regione dell'Upper Nile. Con un bilancio di oltre 50.000 vittime, centinaia di migliaia di sfollati, svariati cessate il fuoco sistematicamente violati, questa guerra si è trasformata in un conflitto etnico senza quartiere che ha colpito soprattutto la regione nord-orientale del Greater Upper Nile e che ha portato vari osservatori ad evocare il pericolo di genocidio.

Dopo una lunga e turbolenta mediazione internazionale sotto l'egida dell'IGAD-PLUS (una formazione rinforzata dell'IGAD che prevedeva la partecipazione di rappresentanti dell'Unione Africana, Stati Uniti, Regno Unito, Norvegia, Cina ed Unione Europea), le parti hanno firmato di malavoglia un accordo di pace nell'agosto 2015. Questo accordo, fortemente voluto dalla comunità internazionale sia per scongiurare il rischio di un altro fallimento delle operazioni di state-building internazionale, sia per disinnescare le tensioni regionali che si erano andate acuendo tra Uganda e Sudan (sostenitori rispettivamente del governo e dei ribelli), prevedeva la divisione del potere tra il governo, i ribelli e un gruppo di oppositori politici che avevano inizialmente appoggiato la ribellione per poi dissociarsene, ripristinando Salva Kiir e Riek Machar nelle loro posizioni di Presidente e Vice-Presidente.

L’accordo di pace è stato criticato da più parti per aver sancito che in Sud Sudan si arriva al potere solo con la guerra e per aver riproposto la creazione di una forza di polizia e un esercito ibridi nella capitale (anziché stabilire la smilitarizzazione dell'area, alla quale entrambe le parti in conflitto si opponevano). Ma il principale problema dell'accordo si è rivelato essere la totale assenza di volontà politica a sostegno di una sua effettiva implementazione. Mentre scontri militari isolati sono continuati in varie aree del paese, neanche due mesi dopo la stipula della pace un decreto presidenziale ha riorganizzato unilateralmente la struttura del governo locale, aumentando il numero degli stati da 10 a 28 e creando una situazione incompatibile con gli accordi di power-sharing firmati ad Addis Abeba. La reazione della comunità internazionale è stata piuttosto debole, e la riforma è stata subito applicata con la pubblicazione di una nuova mappa molto approssimativa dei nuovi confini, e con un enorme rimpasto che ha portato alla redistribuzione dei funzionari governativi. Questa mossa, in linea con l'uso politico che era stato fatto del decentramento fino a quel momento, è stata interpretata come un tentativo di assicurare il controllo dinka sulle aree petrolifere. Machar, d'altra parte, non è tornato a Juba fino alla fine di aprile 2016, rendendo di fatto impossibile l'implementazione dell'accordo. Le disposizioni in materia di sicurezza, in particolare, sono rimaste lettera morta, portando ad una situazione in cui migliaia di uomini armati, senza stipendio e con scarsa fiducia gli uni negli altri si sono trovati a convivere nella capitale.

Ciò a cui assistiamo oggi non deve sorprendere. E’ il riaccendersi delle ostilità tra due schieramenti che, nei dieci mesi dalla firma dell'accordo di pace, hanno lavorato ben poco per arrivare ad una mediazione più profonda e convinta rispetto a quella artificiosamente pattuita ad Addis Abeba. D'altra parte però, gli eventi di Juba suggeriscono anche altre due considerazioni. In primo luogo, né Kiir né Machar sembrano avere il pieno controllo sulle proprie forze armate. Uno studio pubblicato da Small Arms Survey suggerisce che già nel 2013 Machar si fosse semplicemente messo a capo di una serie di micro-ribellioni causate più da un senso generalizzato di scontento verso il governo e dalla rabbia per il massacro di nuer a Juba nel dicembre 2013, che da un disegno politico predefinito. Allo stesso modo, gli scontri di luglio 2016, benché abbiano toccato solo marginalmente la popolazione civile, sembrano essere stati motivati principalmente dalla tensione incontenibile che si era accumulata tra battaglioni dei diversi schieramenti nella capitale e, probabilmente, dalla frustrazione per una situazione visibilmente di stallo. Dall'altro lato, neanche Salva Kiir sembra avere il controllo dell'esercito: al momento dell'inizio degli scontri, infatti, i due leader si trovavano insieme nel palazzo presidenziale per una conferenza stampa, e le loro prime reazioni sono state di velata sorpresa e di invito alla calma. Clemence Pinaud ha suggerito sul blog African Arguments che l'architetto di quella che sembra essere stata, di fatto, un'offensiva dell'esercito ai danni delle truppe dell'SPLA-IO di stanza a Juba possa essere Paul Malong Awan, un esponente della comunità dinka molto influente, originario, come Kiir, del Bahr el Ghazal. Nel 2014, Malong era stato nominato Capo dello Staff dell'SPLA, nei due anni di guerra aveva condotto numerose campagne anti-nuer con l'aiuto della milizia dinka Mathiang Anyoor e si era sempre identificato con l'area più oltranzista dell'elite di governo, a favore di una vittoria militare che attualmente, almeno nella capitale, sembra aver effettivamente raggiunto.

Nonostante la frammentazione e le tensioni per la leadership in entrambi gli schieramenti, l'11 luglio Kiir e Machar hanno dichiarato un fragilissimo cessate il fuoco che sembra per il momento reggere, e questo porta alla seconda considerazione. E' verosimile pensare che entrambi i leader non siano particolarmente interessati ad una ripresa delle ostilità su vasta scala, perché questo comporterebbe una nuova sospensione dei flussi di aiuti internazionali (che pure sono sostanzialmente diminuiti rispetto al periodo pre-2013), e che la strategia per cercare di ristabilire il controllo sia quella già sperimentata (e già fallita) in passato di "comprare" la lealtà dei leader delle varie milizie locali che minacciano di destabilizzare ulteriormente il paese.  

La comunità internazionale ha indubbiamente riacceso i riflettori sulla regione, soprattutto in seguito agli attacchi da parte dell'esercito governativo alle basi della missione di peacekeeping a Juba, che, dal 2013, ospitano circa 30.000 civili. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, l'Unione Africana e l'IGAD si sono espressi a favore di una forza di interposizione internazionale tra l'esercito governativo, considerandola come possibile un'opzione dopo l'evidente fallimento nella creazione della forza ibrida prevista dall'accordo di pace del 2015. Se il presidente Kiir si è espresso molto chiaramente contro qualsiasi aumento di truppe straniere sul territorio sud sudanese (presenza invocata invece nel 2013, quando l'esercito ugandese aveva contribuito in modo sostanziale alla sconfitta dei ribelli in diverse battaglie), il portavoce dell'SPLA-IO ha invece invocato il dispiegamento di una forza del genere in grado di prevenire gli scontri nella capitale, le cui prospettive di essere smilitarizzata nell'immediato sono ben modeste. Mentre la regione resta con il fiato sospeso ad osservare la tenuta del cessate il fuoco, il dibattito internazionale si interroga sull'opportunità di dispiegare ugualmente una forza internazionale (ipotesi che vede la Russia e la Cina contrarie per motivi legati al rispetto della sovranità) e sulla possibilità di imporre un embargo sulla vendita di armi al paese, opzione questa che vede l'opposizione non soltanto di Russia e Cina (per motivi legati alla legittimità delle sanzioni ONU), ma anche di Stati Uniti e Uganda, che continuano più o meno esplicitamente a ritenere che il governo Sud Sudanese debba comunque essere sostenuto come unica via per la stabilità dell'area. 

 

Sara de Simone, Università degli Studi di Napoli "L'Orientale"

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Sara de Simone
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