Lo Stato fa la guerra e la guerra fa lo Stato. La nascita del Sud Sudan, che sarà celebrata il 9 luglio a Juba, realizza entrambi gli elementi di un distico ormai storico. Il Sudan ha difeso finché possibile la sua integrità e sovranità, ma al termine di una guerra durata quasi ininterrottamente dall’indipendenza nel lontano 1956 si è piegato al realismo se non a una sconfitta. Il Comprehensive Peace Agreement (Cpa), firmato nel 2005, prevedeva l’opzione secessionista e nel referendum svoltosi all’inizio di questo 2011 il responso è stato pressoché unanime. Il governo di Bachir non ha avuto cuore e mezzi per una sconfessione in extremis. Le province meridionali di quello che era il più vasto Stato africano per territorio si sono costituite in uno Stato a sé. Il Cpa è un insieme di impegni reciproci. Alcuni adempimenti sono ancora di là da venire o da verificare ma le due parti sono prigioniere dell’architettura complessiva. Nessuno ha interesse a gettare o a togliere la prima pietra sapendo che dopo il 9 luglio i rapporti fra Khartoum e Juba saranno regolati in via di principio dal diritto internazionale e non più dal diritto interno.
Gli ultimi passaggi non sono stati tutti pacifici. Il plebiscito sulla sorte dell’Abyei, una zona di confine ricca di petrolio che doveva decidere se aderire al Nord o al Sud, non si è potuto tenere per un contrasto sulle modalità. Un piccolo Kashmir pronto a esplodere quando dovesse convenire agli uni o agli altri? Il governo di Khartoum ha usato la forza con la solita durezza contro i focolai di ribellismo che crepitano ancora sotto la cenere nel territorio al di qua dell’ormai prossimo confine fra due Stati. Il governo di Juba si è prodigato per reprimere eventuali dissensi e ha cercato di soddisfare il bisogno di terra di tutti i connazionali in pectore tornati dal Nord per votare e per restare. È chiaro che nelle condizioni di un paese teatro di un’interminabile guerra civile che ha comportato lo spostamento forzoso di milioni di persone, dove per di più un tema permanente di possibile tensione è la concorrenza fra popolazioni stanziali e nomadi, il principio dell’uti possidetis è destinato a essere una pia illusione. Di nuovo, si confida più nella convenienza che nella giustizia.
Si racconta che Salim Salim, allora segretario generale dell’Organizzazione per l’unità africana (Oua), durante la cerimonia per l’indipendenza dell’Eritrea si sia lasciato sfuggire una frase che suonava più o meno così: «Abbiamo accettato l’Eritrea. Prima o poi accetteremo il Sud Sudan. Poi tireremo giù la saracinesca». La mezza profezia di Salim sta realizzandosi a 18 anni dal referendum che decretò il distacco dell’ex colonia italiana dall’Etiopia. Gli altri progetti di secessione o divisione latenti devono rassegnarsi o la nuova Unione africana si dimostrerà meno rigida della vecchia organizzazione, che risentiva più direttamente della gelosia per l’indipendenza di fresca data? Il Sud Sudan ha molti sostenitori importanti, attirati dalle sue risorse e mossi da strumentalismi più o meno nobili. Almeno l’Egitto, un quasi-vicino, nutre tuttavia più di una riserva per questo nuovo candidato alle acque del Nilo e c’è da credere che il governo dei militari o della Fratellanza musulmana sarà meno prono di Moubarak.
Tutti sono coscienti che questa separazione gestita con un certo fair play dopo tante sofferenze e rovine è un azzardo che riguarda anzitutto il Sudan o ex Sudan ma più in grande la valle del Nilo e ancora più in grande l’Africa. Non è di buon auspicio che la diplomazia, se si fa eccezione per il forcing di Bush per arrivare al Cpa, abbia dato spesso il peggio di sé in Sudan, che a Khartoum sia al potere un capo dello Stato ricercato dalla Corte dell’Aja, che a Juba si conosca meglio l’arte della guerra che non la politica e che in Africa il petrolio sia sotto accusa come una “maledizione”. Chissà se John Garang, il “padre della patria” morto troppo presto per poter assistere al lieto evento, mancherà di più a Salva Kir, il comandante militare incoronato presidente del Sud Sudan, o a Omar el-Bachir.