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Africa

Sudafrica in crisi: arriva Ramaphosa

Rocco Ronza
19 Dicembre 2017

Tanto tuonò che piovve. Il 18 dicembre, alla fine di una lunga votazione, il 54° congresso dell’African National Congress (ANC), riunito a Johannesburg, ha sancito la fine del regno di Jacob Zuma e dato il via all’era di Cyril Ramaphosa, neo presidente del partito che fu di Nelson Mandela, sul quale avevano scommesso i mercati (l’elezione è stata salutata con un rialzo della moneta e dei titoli del debito pubblico sudafricano) e la stampa finanziaria internazionale, oltre che i media, il settore privato e una parte significativa della società civile del suo Paese.

Classe 1952, nato a Soweto da una famiglia di etnia venda, Ramaphosa ha prevalso su Nkosazana Dlamini-Zuma, ex ministro, ex presidente della Commissione dell’Unione Africana nonché ex moglie di Zuma, che avrebbe probabilmente protetto il presidente uscente dalle inchieste giudiziarie e proseguito sulla strada di una radicale redistribuzione della ricchezza su base razziale, che molti analisti considerano un lusso insostenibile per un’economia che resta in forte sofferenza dall’inizio della crisi globale del 2008. Ramaphosa era entrato nel congresso con il numero più alto di delegati ed è riuscito a uscirne con l’investitura ufficiale a leader del partito – una posizione che dovrebbe fare di lui il candidato alla successione di Zuma anche come presidente del Sudafrica, in vista delle prossime elezioni politiche, in calendario nel 2019.

Ex sindacalista, diventato milionario grazie alle politiche di promozione dell’imprenditoria nera (ma senza essere sfiorato dalle accuse di corruzione che hanno investito molti altri nuovi ricchi saliti alla ribalta negli stessi anni), Ramaphosa, riavvicinatosi alla politica dopo anni nel settore privato, era stato scelto da Zuma come suo vice all’interno del partito nel 2012. La sua ascesa non segnerà una completa discontinuità con la gestione precedente. Pur avendo accettato il ruolo di candidato alla successione offertogli dai media vicini alla business community e dalla stampa finanziaria internazionale, e aver messo in cima alla propria agenda la lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione e una rinnovata apertura alle esigenze dell’economia privata e degli investitori esteri, Ramaphosa ha sempre evitato di mettersi in rotta di collisione con il presidente. In cambio ha ottenuto una sorta di tacito nulla osta dal vecchio leader, squalificato e indebolito dagli scandali e da una campagna mediatica internazionale in corso dal 2013, ma ancora forte nel partito, come il congresso non ha mancato di mostrare. Una scelta che si può considerare saggia, dato che il nuovo presidente dell’ANC dovrà coesistere con Zuma ancora per un anno e mezzo e che il suo vice, David Mabuza, eletto dallo stesso congresso con una scelta assai più salomonica e consociativa di quella che nel 2007 aveva segnato il passaggio di consegne tra Thabo Mbeki e Zuma, è considerato molto vicino al presidente uscente.

Contro le aspettative di molti osservatori, la transizione ai vertici dell’ANC non ha spaccato il partito. Il congresso di Johannesburg, che si temeva potesse trasformarsi in una resa dei conti interna senza esclusione di colpi e sfociare in una scissione tra l’anima tecnocratica e moderata (incarnata da Ramaphosa) e quella più radicale e africanista (identificata con Dlamini-Zuma), ha testimoniato la solidità e la forza organizzativa del partito che dal 1994 raccoglie la maggioranza dell’elettorato nero (80% del totale) e rappresenta tuttora il principale garante della stabilità politica del Paese. Paradossalmente, infatti, la vittoria di Ramaphosa e il modo in cui essa è avvenuta hanno allontanato il rischio di una rottura dell’unità dell’ANC. Se una sua sconfitta avrebbe potuto spingere i suoi sostenitori a uscire dal partito per allearsi con l’opposizione di centro-destra, l’ala del partito che si era identificata con Zuma e Dlamini-Zuma ha oggi molte meno ragioni per abbandonarlo e condannarsi così alla marginalità politica.

Ramaphosa, almeno sulla carta, appare meglio attrezzato della sua avversaria per tenere insieme le due anime dell’ANC. Troppo giovane per vantare anni di prigionia a Robben Island (come i suoi predecessori Mandela e Zuma) o di esilio dal Paese (come Mbeki), il nuovo leader dell’ANC ha comunque svolto un ruolo di primo piano nella fase finale della lotta contro l’apartheid, prima come leader del sindacato dei minatori e poi come capo negoziatore dell’ANC negli anni della transizione. D’altro canto, la sua trasformazione da sindacalista di umili origini a uomo d’affari di successo (con un patrimonio di oltre 600 milioni di dollari, è oggi uno degli uomini più ricchi del paese) e la sua discussa presa di posizione contro gli scioperanti di Marikana nel 2012 sembrano poter garantire sulla sua volontà di riprendere la strada della collaborazione con i mercati e con gli investitori internazionali, messa in questione, almeno a parole, da Zuma. In questo senso, è probabile che l’elezione di Ramaphosa possa frenare l’emorragia del voto dei ceti medi neri verso la Democratic Alliance, il partito di opposizione liberale votato dalla minoranza bianca che nel 2016 aveva mostrato la capacità di sfidare il partito di governo anche nelle grandi aree urbane, dove il Sudafrica ricco sta assumendo un volto sempre più multirazziale.

I punti di forza del nuovo leader rappresentano però anche i suoi principali punti di debolezza. Privo della salda presa sul partito di cui avevano goduto i suoi predecessori ed esposto all’impazienza dei mercati (che hanno già lanciato i primi avvertimenti), Ramaphosa sarà il primo leader nella storia del Sudafrica democratico la cui legittimazione, con tutta probabilità, dipenderà dall’abilità di trovare vie mediane tra posizioni opposte più che dalla capacità di imporre con forza la propria linea. Se ciò permetterà all’ANC di rigenerare sé stesso e di perpetuare ancora la propria egemonia, o se la svolta di Johannesburg segnerà il ritorno a una politica più consensuale, in cui troveranno spazio anche alleanze multipartitiche, è ancora troppo presto per dirlo.

 
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AUTORI

Rocco Ronza
Università Cattolica

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