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Mandela Day

Sudafrica, l’eredità di Nelson Mandela

Giovanni Carbone
|
Camillo Casola
15 maggio 2019

“Ora che abbiamo finalmente raggiunto l’emancipazione politica, ci impegniamo ad affrancare il nostro popolo dalla schiavitù ancora in essere della miseria, della privazione, della sofferenza, della discriminazione sessuale e di ogni altro genere. […] È con umiltà ed entusiasmo che ricevo l’onore e il privilegio che voi, popolo del Sudafrica, mi conferite di guidare il nostro paese fuori da questa valle oscura, in qualità di primo presidente di un Sudafrica unito, democratico e libero da discriminazioni razziali e sessuali”. 

Il 10 maggio 1994, Nelson Mandela inaugurava una nuova pagina nella storia del Sudafrica. Il neoeletto Presidente della Repubblica si presentava al mondo pronunciando un discorso di grande respiro e visione, che anticipava il rinnovamento politico e sociale che avrebbe atteso il Paese. La fine del regime di apartheid – a conclusione di una strenua lotta di resistenza, condotta prima e durante i suoi 26 anni di reclusione[1] – e la costruzione di uno stato fondato sul riconoscimento reciproco tra le diverse componenti della società sudafricana e sull’avvio di un processo di riconciliazione nazionale, hanno rappresentato il lascito più importante della presidenza di “Madiba”[2]. L’eredità politica, sociale, culturale del padre della “Nazione arcobaleno”[3] costituisce tuttora un riferimento ideale imprescindibile per il suo popolo, e riverbera ben al di là del Sudafrica stesso.

I recenti cambiamenti politici, occorsi a venticinque anni di distanza dall’insediamento di Mandela alla presidenza, necessitano di essere interpretati alla luce dell’esperienza storico-politica da cui ha avuto origine il Sudafrica post-apartheid. 

Eletto alla presidenza con un’ampia maggioranza di consensi – l’African National Congress (ANC) aveva ottenuto il 62% dei voti in occasione delle prime elezioni nazionali a suffragio universale – Mandela condusse effettivamente il Paese in un’epoca di sviluppo socio-economico e protagonismo politico, sulla scena regionale e internazionale. Guidò il difficile processo di formazione di una comune identità sudafricana attraverso l’adozione di pratiche politiche inclusive[4], e assicurò il rafforzamento della democrazia lasciando la Presidenza al termine di un solo mandato, nel 1999, quando rifiutò di candidarsi nuovamente. Una decisione in controtendenza rispetto a parte dei leader africani che, giunti o confermati al potere con l’introduzione di elezioni multipartitiche nella prima metà degli anni ’90, in non pochi casi cercarono di alterare le norme costituzionali per assicurarsi la permanenza al potere con ulteriori mandati.

A vent’anni dalla fine della presidenza di Mandela, in un contesto politico complesso, attraversato da profonde linee di frattura socio-economiche, la regolarità e la trasparenza con cui i processi elettorali si sono svolti danno dimostrazione dei progressi importanti, e non banali, compiuti dalla democrazia sudafricana. In tal senso, il sistema politico ha dato prova di una buona maturità, sebbene la strada verso un più compiuto sviluppo democratico abbia ancora passaggi importanti da percorrere. La posizione di partito maggioritario dell’ANC è stata, infatti, solo in parte messa in discussione, soprattutto in occasione delle ultime tornate elettorali, che hanno visto un progressivo ridimensionamento delle percentuali di consenso da esso registrate, senza però pregiudicare la possibilità di governare da solo il Paese. Un’effettiva alternanza politica si è verificata, al contrario, nell’ambito di elezioni amministrative: nel 2016, il partito perse il controllo di amministrazioni locali di grande rilievo, tra cui Johannesburg e Pretoria, che si aggiunsero a Città del Capo, già guidata dal maggior partito di opposizione, la Democratic Alliance (DA).

La combinazione di forti pressioni interne ed esterne al partito nel febbraio del 2018 hanno condotto il controverso Presidente Jacob Zuma a dimettersi a fronte di gravi accuse di corruzione, evitando così la prospettiva di un voto di sfiducia parlamentare[5]. La capacità di rinnovarsi internamente testimonia come l’ANC, e più in generale il sistema politico sudafricano, dispongano di anticorpi che li aiutano a reagire efficacemente di fronte a distorsioni e disfunzionamenti del processo politico, per tutelare democrazia e stato di diritto. 

Sotto un profilo socio-economico, la fine del regime di apartheid e l’apertura del sistema economico nazionale agli investimenti esteri posero le condizioni per una graduale crescita, assestatasi su livelli elevati durante gli anni di Presidenza di Thabo Mbeki (4,2% annuo in media, tra il 2000 e il 2008), accanto a un incremento di salari reali e PIL pro capite. Questo nonostante le difficoltà strutturali nel ridurre i tassi di disoccupazione e contenere le disuguaglianze[6] attraverso una redistribuzione equa dei dividendi della crescita economica tra le classi più disagiate della popolazione. Nell’ultimo decennio, tuttavia, le prestazioni economiche di Pretoria hanno subito un brusco rallentamento (1,5% annuo di media tra 2009 e 2017, con un mero 0% nel 2016), i livelli di povertà sono aumentati, i tassi di disoccupazione hanno toccato picchi particolarmente elevati (al 27,5% nel 2018), il debito pubblico è incrementato e la valuta nazionale, il rand, è stata pesantemente svalutata. La bad governance di cui sono stati espressione i governi Zuma – accusato, negli anni, di distrazione di fondi pubblici e relazioni politico-economiche controverse con gruppi di affari – ha drasticamente inciso sulle performance dell’economia sudafricana, che ha ceduto il passo a quella nigeriana come principale economia del continente. Le disuguaglianze sono state ulteriormente aggravate, in uno dei Paesi che registra il più alto coefficiente di Gini[7] nel mondo, e le linee di frattura sociali esacerbate, come dimostrano le ondate di violenza xenofoba nei confronti di migranti subsahariani che periodicamente attraversano il Paese. In tale contesto, la questione legata alla redistribuzione delle terre concentrate nelle mani della minoranza bianca – sulla base di un principio di expropriation without compensation – è riemersa a più riprese come rivendicazione politica centrale per una parte significativa delle comunità nere, minacciando così i già fragili equilibri del post-apartheid. L’economia sudafricana resta, tuttavia, tra le maggiori economie del continente nonché la più industrializzata, potendo contare su un settore privato particolarmente dinamico: conserva, da questo punto di vista, un potenziale indiscusso per poter incrociare nuovamente livelli apprezzabili di crescita economica, che dovranno però essere funzionali a uno sviluppo inclusivo, per correggere, almeno parzialmente, gli squilibri legati ad una eccessiva concentrazione della ricchezza. 

È forse sul piano internazionale che la discontinuità tra il Sudafrica lasciato da Zuma e quello che le élite sudafricane avevano ereditato al termine della presidenza Mandela appare più netta. Il carisma e la statura simbolica di Nelson Mandela e la sua straordinaria eredità politica avevano posto le basi per l’attribuzione al Sudafrica di una solida leadership regionale e africana. La visione di un “rinascimento africano” (l’African Renaissance) del Presidente Mbeki, declinato in progetti politico-economico-diplomatici come la New Partnership for Africa’s Development (NEPAD) e l’Unione Africana, ne aveva coronato l’iniziale realizzazione, assieme all’attivismo nei processi di peace-making continentali. L’adesione al raggruppamento intergovernativo dei BRICs (Brasile, Russia, India, Cina) e la membership in seno al G20 hanno poi tradotto a livello globale il riconoscimento di Pretoria come uno dei maggiori rappresentanti degli Stati del sud del mondo[8]. Ma gli ultimi anni, al contrario, hanno visto una regressione sostanziale dell’immagine e del peso politico del Sudafrica sulla scena continentale e internazionale. A ciò hanno contribuito una serie di fattori: i molteplici scandali che hanno investito la classe di governo; alcuni preoccupanti episodi autoritari nelle pratiche di governo, culminati negli eventi di Marikana e nella repressione poliziesca delle proteste di minatori, conclusisi con un bilancio di 34 morti e 78 feriti; la stagnazione economica; le discutibili scelte di politica internazionale, con riferimento, ad esempio, alla visita di stato in Sudafrica del presidente sudanese Omar al-Bashir, cui fu assicurata protezione e rientro sicuro a Khartoum, evitandogli l’arresto richiesto dalla Corte Penale Internazionale (CPI) per i crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Darfur. 

Le consultazioni elettorali dell’8 maggio 2019, le prime dalle dimissioni di Zuma, hanno offerto al Paese un’occasione per ripartire. Il voto ha da un lato certificato la crisi di consensi dell’ANC. Il 57% dei voti rappresenta il peggior risultato in un’elezione nazionale dal 1994, a fronte del 20,8% della DA di Mmusi Maimane, di orientamento liberale, e il 10,8% dell’Economic Freedom Fighters (EFF), partito populista della sinistra radicale fondato da Julius Malema, ex leader della dell’ANC Youth League espulso dal partito. Ma l’ANC del nuovo presidente Cyril Ramaphosa è anche stato in grado di contenere il tracollo. Ex attivista anti-apartheid e sindacalista, considerato il delfino di Mandela, Ramaphosa gode indubbiamente della credibilità internazionale necessaria a valorizzarne l’eredità storico-politica, benché non sia stato estraneo, negli anni, ad alcune vicende controverse[9].

Le sfide che il nuovo leader sudafricano si troverà ad affrontare – a condizione di riuscire a mediare tra le diverse correnti interne al partito, espressione di posizionamenti politici contrapposti che definiscono, per estensione, dinamiche ed equilibri politici nazionali[10] – appaiono complesse. In cima alla lista ci sono la necessità di promuovere con energia ripresa economica e creazione di posti di lavoro, sviluppo inclusivo e riduzione delle disuguaglianze, contrasto efficace a manifestazioni di violenza xenofoba, ripristino di una solida leadership regionale e continentale, nuovo protagonismo sulla scena internazionale. In questo contesto, la profonda crisi in cui versa il partito di governo potrà forse rappresentare uno stimolo per la classe dirigente nazionale a rilanciare un miglior funzionamento del sistema politico sudafricano, con un nuovo inizio segnato da un’efficace lotta alla corruzione. Su questo Ramaphosa ha puntato molto e a questo ha dedicato un passaggio importante del suo ultimo, intenso ed esplicito appello pre-elettorale:  

“Siamo determinati a impedire che quanti saranno trovati colpevoli di corruzione o di coinvolgimento in forme di controllo illecito dello stato possano occupare alcuna posizione di responsabilità, né all’interno dell’ANC né tantomeno in parlamento o nel governo. […] Il tempo dell’impunità è finito. Stiamo entrando nell’era della responsabilità, delle conseguenze. Come African National Congress, abbiamo intrapreso un percorso di rinnovamento e ricostruzione. Noi ammettiamo di aver commesso degli errori. Riconosciamo che la diffusione di clientelismo e corruzione hanno eroso la fiducia del popolo, e indebolito la nostra capacità di servire gli interessi di tutti i sudafricani. Ed è questo il motivo per cui abbiamo lavorato duramente per ripristinare l’integrità del nostro movimento. Abbiamo lavorato per ricostruire un’organizzazione che sia in sintonia con il popolo e che ci consenta di portare avanti le istanze delle comunità”.

 

Note 

[1] Mandela fu imprigionato nel 1964 con l’accusa di attività armata, sabotaggio, tradimento e cospirazione violenta, e condannato all’ergastolo. Diversi anni di reclusione furono trascorsi presso il carcere di massima sicurezza di Robben Island. La liberazione del leader dell’ANC sarebbe avvenuta solo nel febbraio del 1990, su iniziativa del presidente Frederik W. De Klerk.

[2] Soprannome attribuito a Mandela con riferimento alla sua appartenenza clanica.

[3] La definizione di “Rainbow Nation” fu coniata dall’arcivescovo Desmond Tutu, a significare l’orgoglio nella diversità insita nel Paese.

[4] G. Carbone, “Big Shoes to Fill. The ANC and Zuma’s Leadership Deficit”, in G. Carbone (ed.), South Africa. The need for change, ISPI Report, October 2016.

[5] M. Marchant, A Captured State? Corruption and Economic Crime, in G. Carbone (ed.), South Africa, the need for change, ISPI Report, October 2016.

[6] N. Nattrass, The Drowned and the Saved: Development Strategy Since the End of Apartheid, in G. Carbone (ed.), South Africa, the need for change, ISPI Report, October 2016.

[7] Indice di misura standard della disuguaglianza.

[8] C. Alden, The “S” in the BRICS: Assessing the “Pivot to the South”, in G. Carbone (ed.), South Africa, the need for change, ISPI Report, October 2016.

[9] Pur continuando a esercitare una leadership interna all’ANC, Ramaphosa si è convertito, negli anni, in uomo d’affari, con interessi in ambiti diversi, dalle comunicazioni alle miniere. Con riferimento ai fatti di Marikana, fu accusato di aver sollecitato l’intervento contro i minatori in sciopero, in qualità di dirigente di Lonmin, società multinazionale che esercitava il controllo sulla miniera di platino. Nonostante le accuse a suo carico siano poi cadute, la sua figura è stata associata, in seguito, ai grandi interessi di imprese straniere nel Paese.

[10] La designazione di Ramaphosa alla guida dell’ANC è avvenuta con un risicato margine di circa 200 voti, su un totale di 5.000 delegati del partito, sintomo di una frammentazione interna estrema e di una polarizzazione del voto tra la sua fazione e quella di Nkosazana Dlamini-Zuma, che spiega la necessità imperativa di negoziare con la minoranza del partito da parte del neo-eletto Capo di stato.

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Africa sudafrica Nelson Mandela
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AUTORI

Giovanni Carbone
ISPI Head, Africa Programme
Camillo Casola
ISPI Associate Research Fellow, Africa Programme

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