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Focus
Sudan: fine dell’era Bashir, ma la piazza non molla
Camillo Casola
|
Annalisa Perteghella
| 12 aprile 2019

Il Sudan è in fermento. Dopo settimane di proteste di piazza, il potere del Presidente Omar al-Bashir è stato rovesciato da un colpo di stato militare. In un discorso alla nazione, il Ministro della difesa Awad Mohamed Ahmed Ibn Auf ha reso noto l’arresto di Bashir e la costituzione di un consiglio militare chiamato a reggere le sorti del Paese per un periodo transitorio di due anni, in preparazione di elezioni democratiche. Contestualmente, Auf ha anticipato l’adozione dello stato di emergenza, la proclamazione del cessate-il-fuoco e la sospensione della Costituzione, mentre i servizi segreti hanno annunciato la liberazione dei prigionieri politici in tutto il Paese. La caduta di Bashir potrebbe porre le basi per un effettivo cambiamento negli equilibri politici e nelle dinamiche di potere a Khartoum, anche se per il momento i manifestanti restano in piazza, opponendosi al coprifuoco intimato dalle forze dell'ordine: sono in molti infatti ad accusare i militari di "far parte dello stesso regime". La sera del 12 aprile, però, lo stesso ministro della difesa Ibn Auf ha deciso di fare un passo indietro, annunciando le proprie dimissioni e rassicurando i manifestanti circa le tempistiche della transizione politica nelle mani di un governo civile. Quali sono le cause all’origine delle proteste? Quali le rivendicazioni avanzate dai dimostranti? E quali gli obiettivi dei militari?

 

Chi è Omar al-Bashir?

Giunto al potere per effetto di un colpo di stato con cui, il 30 giugno 1989, un gruppo di militari dell’esercito depose il Primo Ministro Sadiq al-Mahdi, Omar Hassan Ahmad al-Bashir emerse presto come uomo forte del Paese, alla guida del Revolutionary Command Council for National Salvation. Avviò una decisa svolta politica, imponendo un sistema monopartitico, impedendo ogni forma di opposizione e censurando gli organi di stampa. Fondamentale fu il sostegno assicurato a Bashir da Hassan al-Turabi, fondatore del National Islamic Front (NIF) ed esponente della Fratellanza musulmana in Sudan: il processo di istituzionalizzazione della legge islamica nel Paese condusse all’adozione della Sharia nel 1991.

Formalmente nominato Presidente della Repubblica sudanese nel 1993, in seguito alla dissoluzione del Consiglio rivoluzionario, Bashir ha dato impulso al consolidamento di uno stato autoritario. Nel corso degli anni Novanta, il conflitto con i gruppi armati insurrezionali nel sud ha continuato a rappresentare un fattore di grave instabilità per il potere di Khartoum, incapace di conseguire un successo militare risolutivo. Nel 2005, sotto l’egida degli Stati Uniti di George W. Bush, Bashir firmò con i rappresentanti del Sudan’s People Liberation Movement (SPLM) un accordo di pace, il Comprehensive Peace Agreement (CPA), che ha rappresentato la base giuridica per il referendum che, nel 2011, ha aperto la strada alla secessione del Sud Sudan.

 

Il Darfur e l’accusa di crimini di guerra

Agli inizi degli anni Duemila, lo scoppio di un nuovo focolaio di ribellione in Darfur, a ovest del Paese, ha messo a dura prova la tenuta del regime di Bashir. Per piegare le resistenze dei gruppi ribelli nella regione – principalmente il Justice and Equality Movement (JEM) e il Sudan Liberation Army (SLA) – Bashir fece ricorso alle milizie arabe Janjaweed, armate dai servizi di intelligence e autorizzate dal governo a reprimere la ribellione mediante il ricorso a metodi particolarmente brutali. Le violenze perpetrate nei confronti delle comunità Fur, Masalit e Zaghawa in Darfur valsero a Bashir le accuse della comunità internazionale. Nel 2009, la Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso un mandato d’arresto nei confronti del Presidente sudanese per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, un unicum per un Presidente in carica. Nonostante il divieto di compiere viaggi all’estero, tuttavia, Bashir ha continuato ad esercitare le sue prerogative nell’impunità, sfuggendo all’arresto grazie al sostegno di numerosi capi di Stato e delle organizzazioni intergovernative africane. Un’eco rilevante ebbe, nel marzo del 2015, la presenza di Bashir al vertice dell’Unione Africana (AU) a Pretoria, dove fu accolto calorosamente dalle autorità sudafricane, che ne impedirono la cattura facilitando il suo rientro a Khartoum. L’iniziativa del procuratore Luis Moreno-Ocampo – che aveva, peraltro, avanzato l’ipotesi di genocidio in Darfur – è stata ampiamente criticata nel continente, e la CPI accusata di essere strumento non imparziale delle potenze occidentali, espressione di pregiudizi politici contro i governi africani.  

 

Dove nascono le proteste?

A cinque anni dalle proteste anti-governative che nel 2013 attraversarono Khartoum e furono brutalmente represse dalle forze di sicurezza sudanesi – il bilancio, drammatico, fu di circa 200 morti – il 19 dicembre 2018 nuove manifestazioni di dissenso nei confronti del regime hanno avuto inizio ad Atbara, città nel nord del Paese. Le proteste si sono diffuse rapidamente dalle aree rurali fino ai principali centri urbani (Port Sudan, Wad Madani, Um Rawaba, Gadarif) e alla capitale, dove le sedi locali del partito di governo, il National Congress Party (NCP), sono state assaltate, saccheggiate e date alle fiamme. All’origine delle dimostrazioni, le difficili condizioni socio-economiche del Paese: in particolare, l’aumento del prezzo del pane, triplicato in seguito alla soppressione di sussidi governativi nel quadro di misure di austerità adottate per far fronte alla crisi economica – che è stata esacerbata negli anni dagli effetti della secessione sud-sudanese e dalla conseguente perdita di una quota considerevole della produzione petrolifera nazionale – ha innescato la rabbia delle popolazioni sudanesi. Concepite per stimolare (senza successo) la produzione agricola per il consumo interno, le politiche di espropriazione dei terreni a danno delle comunità locali e a beneficio di investitori stranieri – provenienti, in particolare, dalla regione del Golfo – hanno alimentato tensioni sociali e ragioni di conflitto. 

Una crescente inflazione, carenza di valuta straniera, esigui livelli di liquidità delle banche e forte corruzione hanno profondamente indebolito le basi di legittimità del regime. La natura eterogenea delle proteste sembra riflettersi nella diversa estrazione economica e sociale dei manifestanti. Accanto alle rivendicazioni sociali ed economiche delle fasce più indigenti della popolazione, le istanze delle classi medie urbane scese in piazza a Khartoum riflettono la comune aspirazione ad assicurare discontinuità politica a un Paese fondato sulla repressione del dissenso e costantemente piegato da guerre civili – a ovest, in Darfur, e nelle regioni meridionali di Blue Nile e South Kordofan, al confine con il Sud Sudan – mediante l’adozione di riforme democratiche e il riconoscimento di diritti civili e politici.

 

Chi sono i manifestanti?

Il fulcro delle manifestazioni contro Bashir è stato rappresentato dal National Front for Change (NFC), una coalizione di partiti di opposizione, associazioni professionali, sindacati, guidata da Ghazi Salah al-Din, già membro del National Congress Party e attuale leader del Reform Now Movement. La Sudanese Professionals Association (SPA), formata dai rappresentanti di diversi ordini professionali, ha guidato le proteste sin dagli inizi, in coordinamento con il movimento giovanile Girifna, costituito nel 2009 da studenti universitari. A completare il quadro, la Sudan Call, alleanza tra National Umma Party (NUP), Sudanese Congress Party (SCP), Sudan’s People Liberation Movement-North (SPLM-N), Justice and Equality Movement (JEM) e Sudan Liberation Movement, che hanno integrato il fronte di opposizione a Bashir. Alla base delle istanze, la richiesta di dimissioni del Presidente e il trasferimento del potere a un organo collegiale incaricato di gestire la transizione, assicurare l’adozione di riforme democratiche e condurre i negoziati di pace con i gruppi ribelli nelle diverse regioni del Paese. Più radicali le posizioni del partito comunista sudanese e di diversi altri movimenti politici della sinistra (National Consensus Forces, NCF), che hanno rigettato ogni ipotesi di compromesso e soluzione negoziata con il National Congress Party.

 

Militari e polizia: uniti contro Bashir?

La repressione del regime di Bashir – operata soprattutto dagli agenti del National Intelligence Security Service (NISS), sotto il controllo del Ministero degli Interni – ha causato circa 70 vittime e centinaia di feriti tra i manifestanti, secondo stime citate da Human Rights Watch. In febbraio, l’adozione dello stato di emergenza ha determinato una nuova ondata di arresti in tutto il Paese, autorizzando le forze di sicurezza a inasprire le misure repressive nei confronti dei dimostranti e rendendo ancor più restrittive le condizioni di agibilità per stampa e partiti di opposizione. Ciò, tuttavia, non sembra aver depotenziato la spinta delle proteste, che anzi hanno avuto nuovo impulso il 6 aprile: nel giorno dell’anniversario del golpe contro Gaafar al-Nimeiry, è stata organizzata a Khartoum la più grande manifestazione dall’inizio delle agitazioni popolari contro il regime. Un elemento di novità è rappresentato dal ruolo dell’esercito, che sinora si è schierato a difesa dei manifestanti, impedendo alle forze di polizia di disperdere la folla giunta in prossimità del Ministero della difesa. Secondo testimonianze raccolte dal Comitato centrale dei medici del Sudan, un militare dell’esercito, Sami Sheikh al-Din, sarebbe morto in seguito alle ferite riportate durante uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza. Le divisioni interne alle forze armate sudanesi – con tutta probabilità, anche in seno all’esercito, tra sottoufficiali e militari di alto rango – hanno costituito un importante segnale di rottura. L’8 aprile, l’esercito ha circondato il compound, sede della residenza presidenziale e quartier-generale dei servizi di intelligence, lasciando presagire la possibilità concreta di un’evoluzione degli scenari politici in Sudan coerente con l’uscita di scena di Bashir.

 

Quali scenari?

La caduta del potere di Bashir apre una nuova fase politica in Sudan. Come preannunciato dal Ministro della difesa, la transizione sarà gestita da un organo collegiale, con l’obiettivo di adottare riforme democratiche e accompagnare il Paese verso lo svolgimento di elezioni. La durata considerevole della transizione, tuttavia, e il ruolo preponderante che i militari saranno chiamati a esercitare lascia aperti numerosi interrogativi: il rischio che l’intervento dell’esercito possa trasformare la spinta rivoluzionaria in uno strumento di accesso al potere per nuove élites militari - con il sostegno di attori esterni e potenze regionali - in assenza di una effettiva trasformazione dello Stato su basi democratiche, è reale. Tuttavia, l'annuncio venerdì 12 aprile delle dimissioni di Ibn Auf - alla testa del Comitato militare dopo l'arresto di Bashir - sembra andare nella direzione della richiesta dei manifestanti che la discontinuità politica nel Paese sia reale: soprattutto alla luce del fatto che malgrado l'imposizione di un coprifuoco da parte della giunta militare i cittadini hanno rifiutato di abbandonare le piazze. Eppure, la dichiarazione dello stato di emergenza e la sospensione della Costituzione riflettono comunque la precarietà di una situazione che resta in divenire, come dimostrano le dichiarazioni dei rappresentanti delle proteste, che hanno fin da subito respinto il comunicato dei militari e la roadmap della transizione, denunciando la presenza di figure di spicco del regime tra gli autori del colpo di stato.

 

Sudan, Algeria e… popolazioni giovani, leader sempre più anziani

Quanto avvenuto in Sudan e Algeria, dove nel giro di poche settimane le proteste popolari sono state determinanti per la destituzione di leader in carica da decenni, riporta alla luce il dibattito sulla longevità delle leadership in Africa. Sei dei dieci presidenti al mondo in carica da più tempo sono africani. Diversi leader del continente - Pierre Nkurunziza in Burundi, Paul Biya in Camerun, Idris Deby in Ciad, oltre che lo stesso Omar al-Bashir in Sudan – hanno de facto eliminato il limite ai mandati presidenziali, gettando dunque le premesse per rimanere in carica a vita. In Uganda, il settantaquattrenne Yoweri Museveni ha invece ottenuto la rimozione del limite di età imposto dalla costituzione, mentre il limite al numero di mandati era stato già eliminato nel 2005. La questione della permanenza al potere da parte di leader sempre più anziani e sempre più identificabili con lo Stato stesso solleva numerose incognite circa le possibilità di sviluppo democratico di questi Paesi, e sulla loro stessa stabilità: ça va sans dire, nessuno dei sei paesi africani con le leadership più longeve è una democrazia. In un continente in cui invece i tassi di crescita demografica restituiscono il quadro di una popolazione sempre più giovane, ciò contribuisce ad aumentare la distanza tra governanti e governati; questo, insieme alla gestione personalistica del potere e alla scarsa redistribuzione delle risorse, rappresenta un mix letale per la stabilità della regione.

Vale la pena rilevare, tuttavia, che i casi di Presidenti a vita, in Africa subsahariana, sono sempre più rari (così come i colpi di stato). Come dimostra il database Africa Leadership Change dell’ISPI, in molti altri paesi africani il limite dei mandati è stato rispettato e si è dunque proceduto a trasferimenti di potere al vertice. I casi esemplari in questo senso sono quelli di Ghana, Kenya, Liberia, Nigeria, Mozambico, Sierra Leone, Tanzania e Zambia.

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Tags

Africa Sudan Bashir

AUTORI

Camillo Casola
ISPI Associate Research Fellow - Africa Programme
Annalisa Perteghella
ISPI Research Fellow

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