Raggiunta un’intesa con i militari per la transizione democratica in Sudan. La comunità internazionale plaude ma nel paese sono già in corso le proteste.
La giunta militare al governo in Sudan e le organizzazioni della società civile hanno raggiunto un accordo per una transizione di due anni che dovrebbe mettere fine alla crisi in corso nel paese, teatro un anno fa di un colpo di stato. L’intesa, parte di un processo politico in due fasi, è stata siglata dal capo dell'esercito, Abdel Fattah al-Burhan, e da diverse organizzazioni, in particolare le Forze per la Libertà e il Cambiamento, estromesse dal colpo di stato. Secondo il Sudan Tribune, i firmatari si sono impegnati ad abrogare la dichiarazione costituzionale del 2019 e a rivedere le decisioni emesse dai vertici militari dopo il golpe del 25 ottobre 2021. Inoltre, l'accordo prevede che la Costituzione transitoria diventi la legge suprema dello stato; prevede la fusione delle Forze di Supporto Rapido nell’unico esercito professionale riconosciuto; vieta ai militari di condurre investimenti e attività commerciali in settori diversi dall'industria della difesa. Il testo riafferma inoltre il principio di responsabilità e giustizia per i crimini di guerra, gli attacchi al sit-in pro-democrazia e l’uccisione di manifestanti, ma non stabilisce garanzie sul fatto che il potere giudiziario sia libero di operare. Da qui le accuse di chi sospetta che l’intesa possa offrire l’impunità ai militari per i crimini commessi. Pur avendo ricevuto il plauso degli Stati Uniti, Regno Unito, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti che in questi mesi hanno lavorato per uscire dallo stallo, l’accordo non è benvisto da tutti. Diversi gruppi dissidenti affermano che l’intesa “non soddisfa le loro aspirazioni” e che sono stati “esclusi dai colloqui”.
Ritorno allo status quo?
Dopo la rivoluzione che nel 2019 rovesciò il regime del dittatore Omar Hassan al Bashir al potere per 30 anni, una roadmap avrebbe dovuto portare il paese al voto nel 2023. Tuttavia, nell’ottobre 2021, lo stesso governo di transizione in carica a Khartoum fu rovesciato dalla metà dei militari che componevano l’esecutivo guidato da Abdallah Hamdok e che estromisero i politici civici prendendo il sopravvento. Da allora, il paese non ha avuto un primo ministro o un gabinetto e l’economia – già al collasso – è stata ulteriormente danneggiata dalla mancanza di investimenti internazionali, dall’aumento del debito e dallo stop agli aiuti allo sviluppo, il cui flusso si è interrotto dopo il colpo di stato. Il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha recentemente stimato che un sudanese su tre è sull’orlo dell’insicurezza alimentare a causa dei problemi politici ed economici in corso. I gruppi civili pro-democrazia hanno continuato a scendere in piazza per esprimere il proprio disappunto per la presa di potere militare, pagando un alto prezzo in termini di vite umane ma impedendo una completa presa di potere da parte dei generali. A più di un anno dal golpe, le proteste di massa contro i militari e la sospensione di miliardi di dollari di assistenza finanziaria internazionale hanno portato il paese sull’orlo del baratro.
C’è chi dice no?
Per questo l’annuncio di un accordo è stato accolto con sollievo da gran parte della comunità internazionale. Tuttavia, i leader dei Comitati di resistenza pro-democrazia hanno già indetto scioperi e manifestazioni di protesta. “Questo accordo è solo inchiostro sulla carta e lo revocheremo presto, proprio come quello tra l’ex primo ministro e i militari nel novembre 2021. Non saremo più governati dai militari”, recita una nota diffusa dall’organizzazione. I comitati di resistenza hanno convocato cinque giorni di proteste e promesso di continuare a manifestare a oltranza contro qualsiasi accordo di condivisione del potere tra civili e militari, sollevando quelli che chiamano i “tre no”: “nessun negoziato, nessun compromesso e nessuna legittimità”. Anche il portavoce dell’Associazione dei professionisti sudanesi (Spa), il sindacato che ha animato la rivoluzione del 2019, Walid Ali, ha respinto l’accordo, definendolo una battuta d’arresto rispetto alle richieste delle piazze che portarono alla caduta di Omar al Bashir. “Il punto è: queste elezioni saranno veramente libere ed eque e porteranno alla trasformazione dello stato sudanese? – si chiede l’analista Cameron Hudson intervistato da Al Monitor – Tutti pensano che fino ad oggi il leopardo non ha cambiato le sue macchie e non c'è nulla che suggerisca che intenda andare avanti”.
Un generale scetticismo?
A remare contro le speranze di una possibile svolta è un clima di generale scetticismo e diffidenza nei confronti dei militari. E più di qualcuno ritiene che il Sudan rischi di passare semplicemente da un vicolo cieco politico a un altro: “Ci sono due percezioni diametralmente opposte dell’accordo in Sudan – osserva su Twitter l’analista Kholood Khair – la prima è che è un fait accompli che gode del consenso degli otto che l’hanno negoziato; e la seconda è che non esiste – nessuno l'ha visto – e anche se esistesse, le forze golpiste non sono serie, non reggerà”. Altri affermano che ci sono molti interrogativi che potrebbero far fallire qualsiasi accordo, tra cui chi diventa primo ministro e presidente durante il periodo di transizione e come riformare l’esercito. Sospetti e critiche non risparmiano chi ha plaudito all’intesa: alcuni passaggi dell’accordo sarebbero volutamente ‘vaghi’ perché altrimenti entrerebbero “in contraddizione con gli standard internazionali dei diritti umani”, osserva l’analista politico sudanese Mohammed Badawi, secondo cui l’accordo darà il sopravvento ai militari sulla scena politica e sull'economia, ma la comunità internazionale lo sostiene “pur di scongiurare il probabile fallimento dello stato o lo scoppio di una vera e propria guerra civile nel paese”.
Il commento
Di Lucia Ragazzi, ISPI Africa Programme
L’intesa tra militari e civili è stata accolta dalla comunità internazionale, pur con le dovute cautele, come un’occasione da non perdere per portare a termine lo stallo in cui la politica sudanese era sembrata arenarsi. Eppure, la situazione rimane densa di interrogativi.
L’accordo giunge a poco più di un anno da quando il colpo di mano di al-Burhan aveva a sua volta interrotto un precedente tentativo di transizione. Proprio il susseguirsi di delusioni per le forze democratiche è alla base di un diffuso scetticismo sulla capacità di tradurre le recenti dichiarazioni di intesa in meccanismi di implementazione concreti. In un clima di generale sfiducia, la strada da percorrere per la transizione democratica rimane in salita. L’attuazione dell’accordo sarà il banco di prova per verificare se il passo compiuto andrà in questa direzione, o se ci sia invece il rischio di ripetere un film già visto.
***
A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications.