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Africa

Sudan, un golpe annunciato

25 ottobre 2021

I militari del Sudan sciolgono il governo di transizione e dichiarano lo stato di emergenza, poche ore dopo aver arrestato il premier Abdallah Hamdok e altri leader civili.

 

Le forze armate sudanesi hanno arrestato questa mattina a Khartoum il primo ministro Abdallah Hamdok dopo che quest’ultimo si è rifiutato di leggere un comunicato a sostegno del colpo di stato militare in corso nel paese. Lo riferisce il ministero dell’Informazione sudanese secondo cui il premier si trova agli arresti domiciliari mentre altri esponenti di governo e ministri sono anch’essi in stato di detenzione. In mattinata il presidente del Consiglio Sovrano del Sudan, generale Abdel Fattah al-Burhan, ha annunciato lo scioglimento del consiglio e del governo di transizione e dichiarato lo stato di emergenza nazionale. “Siamo stati costretti ad intervenire” ha detto il generale, “poiché i dissidi interni al governo stavano minacciando la pace e la stabilità sociale”. I militari hanno confermato che si atterranno all’accordo di conciliazione e che condurranno il paese a libere elezioni nel giugno 2023. Ma intanto, nella capitale sudanese sono ore concitate: le linee telefoniche e i servizi internet funzionano a singhiozzo, le forze armate hanno chiuso alcuni ponti e strade mentre l’aeroporto è stato transennato e i voli internazionali sono sospesi. A Khartoum e Omdurman, città gemella della capitale sull’altra sponda del Nilo, la gente si è riversata per le strade e nello scontro con i militari si sarebbero registrate già una decina di vittime. I gruppi per la democrazia hanno invitato i sudanesi a scendere in piazza ‘pacificamente’ per resistere ad ogni tentativo di colpo di stato e per “difendere la rivoluzione da chi sta cercando di rubarla”.

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Un epilogo prevedibile?

In Sudan il golpe militare arriva dopo mesi di tensione e recriminazioni tra gruppi militari e civili, chiamati a condividere il potere dopo la destituzione nel 2019 dell’ex leader Omar al-Bashir. Lo scorso 21 settembre le autorità civili che guidano la transizione in Sudan avevano annunciato d’aver sventato un tentativo di colpo di stato organizzato da comparti dell’esercito fedeli all’ex regime. Da allora il Sudan ha vissuto nella preoccupante attesa di un secondo tentativo che, oggi, è puntualmente arrivato. Da mesi gli apparati militari sudanesi erano sotto pressione per il progetto di riforma dell’esercito, attraverso cui l’esecutivo guidato da Hamdok avrebbe voluto epurare i tanti militari rimasti fedeli all’ex regime. Quanto accaduto il mese scorso aveva già dimostrato con drammatica urgenza perché una riforma delle forze armate non fosse ulteriormente rinviabile. A due anni e mezzo dalla caduta di Al Bashir, mentre il percorso di riorganizzazione dello stato sudanese faceva cogliere parte dei frutti sperati, i leader civili del paese si sono trovati a un bivio: continuare le riforme ma con efficacia limitata, o perseguire cambiamenti strutturali profondi, riguardo il ruolo dei militari in ambito politico e, soprattutto, economico. Nei giorni scorsi, il premier aveva descritto le pressioni sul governo ad interim e le ingerenze dei militari come la “crisi peggiore e più pericolosa” che il paese si trova ad affrontare nel corso della sua transizione.

 

 

 

Uno stato nello stato?

“Abbiamo stabilizzato la moneta, dopo fluttuazioni violente, l’inflazione sta cominciando a calare e man mano che apriamo la nostra economia, arriveranno investimenti dall’estero. Crediamo che il peggio sia passato”. Così il premier Hamdok, economista navigato e già vice segretario della Commissione Economica dell’ONU per l’Africa, descriveva un mese fa le condizioni del Sudan in un’intervista alla Cnn. All’indomani del fallito golpe, il premier accusava inoltre “forze vicine all’ex regime, di voler frenare questo processo di transizione e soprattutto salvaguardare posizioni di privilegio radicate”. Le tensioni hanno riguardato soprattutto le Forze di supporto rapido (Rsf) – organizzazione paramilitare creata dall’ex presidente al Bashir per reprimere le rivolte in Darfur – restie ad essere integrate nell’esercito regolare e a cedere parte del loro enorme potere economico e politico. Varie investigazioni ritengono che le Rsf controllino indirettamente l'80% dell'economia sommersa sudanese. Come nel vicino Egitto, anche in Sudan le forze armate controllano molte attività strategiche del paese, tra cui il commercio del gas da cucina e l’estrazione mineraria. La totale assenza di trasparenza, inclusa la mancata dichiarazione dei propri profitti nel bilancio dello stato, hanno alimentato le speculazioni sui reali interessi dei vertici militari sudanesi nella transizione democratica.

 

Il golpe della restaurazione?

Se non fosse bastato il tentativo di golpe del mese scorso, a far alzare i livelli di allarme per un possibile nuovo colpo di stato poteva essere un sit-in di fronte al palazzo presidenziale a Khartoum la scorsa settimana. I partecipanti avevano chiesto a gran voce le dimissioni dei politici ‘corrotti’ e la creazione di un governo di militari. Gli analisti concordano nel definire quella manifestazione una ‘coreografica messinscena’ per legittimare un imminente colpo di stato. Eppure, questa mattina la stragrande maggioranza delle cancellerie internazionali ha espresso “profonda preoccupazione” mista a sorpresa per gli avvenimenti delle ultime ore. Come se dinamiche identiche, o comunque molto simili, non si fossero già compiute in altri paesi della regione e del vicino nord Africa. Nell’ultimo anno e mezzo il Sudan ha compiuto enormi passi avanti nella normalizzazione dei legami con l’Occidente e nell’apertura di flussi di finanziamento necessari alla sua economia. La promessa della transizione democratica ha alimentato le speranze di molti cittadini e alleati. Tutti traguardi che, da oggi, con buona pace di chi non ha saputo cogliere i segnali, appaiono di nuovo a rischio. A meno di voler vedere le cose dalla prospettiva di Hanafi Abdullah, l’ex potentissimo capo dei servizi di intelligence sudanesi (Niss) del governo di Omar al Bashir: “Quello che sta accadendo in Sudan non è un colpo di stato militare – ha dichiarato nel corso di un’intervista all’emittente Al Arabiya – ma una correzione del corso della rivoluzione”. Questione di prospettiva.

 

Il commento

Di Giovanni Carbone, Head ISPI Africa Programme

Un ‘colpo’ di stato è sempre improvviso. Ma alcuni colpi di stato sono nell’aria ben prima di essere portati a compimento, e quello del Sudan è uno di questi. Da quando il maresciallo Omar al-Bashir venne rovesciato, nel 2019, Khartum ha camminato su un crinale instabile, a cavallo tra il tentativo di consolidare la transizione e il rischio che venisse innestata la marcia indietro. Il ritorno al potere degli ufficiali delude, quindi, ma non stupisce. Sarà importante opporsi agli sviluppi sudanesi non solo per provare a far risalire il paese sul crinale, ma anche – considerati i recenti interventi dei militari in Mali e in Ciad – per arginare il ritorno di una pratica che anche in Africa subsahariana sembrava in disuso.

 

* * *

A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications)

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