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USA-Cina

Taiwan: il partito nazionalista rafforza il legame con gli USA

Lorenzo Lamperti
09 giugno 2022

"Siamo all'opposizione: non abbiamo il potere, ma abbiamo il diritto di parlare del futuro di Taiwan". Ha esordito così Eric Chu, nell'atteso discorso di qualche giorno fa al Brookings Institute, durante la sua trasferta di 11 giorni negli Stati Uniti. Un viaggio che può rappresentare un tassello significativo in vista delle grandi manovre per le elezioni presidenziali del 2024 e che può dare indizi fondamentali sul futuro andamento dei rapporti tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese.

 

Il contesto della visita di Chu negli Stati Uniti

Chu è il presidente del Guomindang (GMD), il partito nazionalista cinese che fu di Sun Yat-sen e di Chiang Kai-shek, tradizionalmente più dialogante con Pechino e sostenitore della "one-China policy", pur ritenendo che la Cina legittima sia la Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan). La forza di maggioranza, il Partito Progressista Democratico (DPP), è invece storicamente sostenitore della "teoria dei due stati" con l'obiettivo (almeno in diverse sue componenti) di lungo termine dell'indipendenza come Repubblica di Taiwan. Dopo 14 anni di assenza, la principale forza d'opposizione della politica taiwanese è tornata a proiettarsi su suolo americano. "Sono qui per cancellare un'etichetta sbagliata. Non siamo un partito filocinese, siamo un partito filostatunitense", ha detto Chu nel tentativo di riannodare i fili di un rapporto che negli ultimi anni si era molto sfilacciato.

Il motivo ufficiale della lunga visita di Chu è la riapertura dell'ufficio di rappresentanza del partito a Washington. "Siamo qui, siamo tornati", ha detto Chu prima di tagliare il nastro della postazione che era stata precedentemente in funzione tra il 2000 e il 2008. Non a caso, un periodo temporale che aveva coinciso con i due mandati presidenziali di Chen Shui-bian, primo presidente taiwanese del Partito Progressista Democratico (DPP) e non del GMD. Dopo la vittoria nel 2008 di Ma Ying-jeou (GMD) l'ufficio fu chiuso. Il DPP era allo sbando e, dopo la condanna per corruzione e appropriazione indebita di Chen, il GMD pensava di aver riconquistato in modo permanente la guida della Repubblica di Cina, ancora oggi il nome ufficiale col quale Taiwan è indipendente de facto. Si trattava di un momento molto diverso, non solo sul fronte interno taiwanese ma anche sul fronte dei rapporti Washington-Pechino.

Agli Stati Uniti di Barack Obama non dispiaceva avere a Taipei una figura dialogante con l'altra sponda dello Stretto. Nel 2012, quando Ma ottenne il secondo mandato sconfiggendo Tsai Ing-wen, presidente del DPP in carica dal 2016, in pochi furono scontenti. Ma operò un grande riavvicinamento a Pechino e nel 2015, stringendo la mano a Xi Jinping a Singapore, diventò il primo presidente taiwanese a incontrare un presidente della Repubblica Popolare. Lo stesso Chu, prima della candidatura alle elezioni del 2016 (poi perse contro Tsai) incontrò Xi, in un momento nel quale il GMD dava per scontato l'appoggio americano perché si riteneva l'unica forza in grado di garantire il mantenimento dello status quo.

Uno status quo che negli scorsi anni ha iniziato a essere testato da entrambe le parti. Da una parte la telefonata tra Tsai e Donald Trump, l'eliminazione delle restrizioni autoimposte operata dall'ex segretario di Stato Mike Pompeo e le (non) gaffe di Joe Biden sull'impegno alla difesa militare di Taiwan in caso di aggressione. Dall'altra parte la retorica sempre più aggressiva di Pechino, in particolare a partire dal discorso di Capodanno del 2019 di Xi Jinping, e le costanti manovre militari tra incursioni aeree ed esercitazioni navali.

 

Una “taiwanizzazione” necessaria?

L'evoluzione dei rapporti intrastretto degli ultimi anni, la crescente aggressività diplomatica e strategica del Partito comunista cinese e il fallimento del modello "un paese, due sistemi" di Hong Kong (ancora oggi l'unica "offerta" che Pechino sottopone ai taiwanesi) ha portato a una forte polarizzazione dell'opinione pubblica taiwanese. Il tema identitario ha dominato le elezioni del 2020 e domina ancora il discorso politico e pubblico, favorendo il DPP che ha accelerato il processo di costruzione identitaria taiwanese giocato sull'alterità rispetto alla Repubblica Popolare. Dalla legalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso al rilassamento delle restrizioni anti Covid proprio mentre Shanghai sprofondava in un lungo lockdown, insieme a una produzione culturale sempre più orientata sulle specificità non solo politiche ma anche culturali, identitarie e storiche di Taiwan, sono chiari segnali in tal senso.

Dopo la batosta elettorale del 2020, il GMD ha provato una timida "taiwanizzazione" con il leader pro tempore Johnny Chiang, il quale aveva aperto a una rivalutazione della posizione del partito sul "consenso del 1992", cioè il celeberrimo accordo di essere in disaccordo col PCC sull'esistenza di una sola Cina, senza stabilire quale essa sia. Un processo terminato con le primarie dello scorso settembre, dal quale è uscito vincitore Chu. Meno filo Pechino e più presentabile del rivale Chang Ya-chung e più al centro di Chiang, la scelta del "porto sicuro" Chu ha dimostrato che il GMD non vuole rinunciare alla vocazione maggioritaria ma anche che non è pronto a un vero rinnovamento. 

 

La strategia del Guomindang per riavvicinarsi a Washington

Ora, però, Chu e il GMD intravedono un'opportunità che sperano di cogliere attraverso il rilancio dei rapporti con Washington. Diverse fonti politiche taiwanesi raccontano di come Washington apprezzi moltissimo il lavoro di Tsai, che ha saputo finora guidare con risolutezza ma anche tranquillità (e dunque prevedibilità) Taipei in una contingenza particolarmente tempestosa. Allo stesso tempo, il GMD è convinto che l'erede designato di Tsai non fornisca le stesse garanzie agli Usa. Se Tsai è una figura centrista nel panorama politico taiwanese, l'attuale vicepresidente William Lai (considerato con ogni probabilità il candidato del DPP alle elezioni del 2024) viene considerato più radicale e la sua sfida a Tsai nelle primarie del 2019 rischiò di portare a una scissione del partito di maggioranza. In questi anni sta smussando qualche angolo, ma il GMD spera di infilarsi ampliando gli ipotetici dubbi degli Stati Uniti su una figura che il partito d'opposizione prova a presentare come imprevedibile, ricordando i non fortunati trascorsi con Chen.

In questo contesto nasce il viaggio di Chu, che punta a saggiare le intenzioni di Washington proponendo il GMD come scelta obbligata per fare di Taiwan un fattore di stabilità nei rapporti Usa-Cina piuttosto che un inevitabile flashpoint. "Vogliamo rafforzare le nostre capacità di difesa e di deterrenza investendo su operazioni asimmetriche e riformando le norme su leva militare e prontezza a combattere", ha detto Chu al Brookings mostrando la volontà di aumentare le spese militari in collaborazione con gli Usa. Allo stesso tempo, ha ribadito che "serve mantenere un canale di dialogo con Pechino", attenuando il rischio di un confronto tra le due sponde dello Stretto e a livello globale, e valorizzando Taiwan come polo culturale alla luce del suo patrimonio cinese e della sua comprensione della Cina.

Il messaggio implicito è chiaro: "Con il DPP si rischia di finire davvero in guerra, se gli Usa non vogliono un confronto ma vogliono stabilità e dialogo devono parlare con noi". Per rendere il GMD un'opzione più allettante, Chu ha adattato molto al contesto la sua retorica e le sue scelte lessicali. La Repubblica di Cina, il nome ufficiale di Taiwan che rappresenta ancora pienamente soprattutto il GMD e i suoi elettori, non è mai stato menzionato. Chu ha parlato sempre di "Taiwan". In tal modo ha accorciato le distanze tra GMD e DPP sulla narrativa identitaria, provando a sfumare i possibili punti critici della posizione del suo partito. Non a caso è stato molto vago sulla posizione in merito al consenso del 1992 e sugli accordi commerciali regionali. Il GMD sembra dunque voler adottare anche in ambito diplomatico la strategia che presumibilmente adotterà sul fronte interno per provare a vincere le prossime elezioni: allontanare da sé l'etichetta di "quinta colonna" del PCC ribadendo però di essere l'unica forza in grado di capire davvero Pechino e mantenere un rapporto che abbassi i rischi di un'invasione. Il successo o il fallimento di questo obiettivo potrebbe dire molto non solo del futuro politico di Taiwan, ma anche delle speranze di "riunificazione" ("unificazione" nella prospettiva di Taipei) pacifica di Pechino, delle intenzioni di Washington e delle possibilità di tornare a dirsi d'accordo di essere in disaccordo.

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Ugo Tramballi
ISPI Senior Advisor

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Asia Cina Taiwan USA Guomindang
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AUTORI

Lorenzo Lamperti
China Files

Image credits: Adam Fagen (CC BY-NC-SA 2.0)

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