Il rialzo dei tassi di interesse sta cambiando tutto. Non che sia una sorpresa, da dicembre si sapeva che la FED avrebbe accelerato il suo percorso di ritorno alla normalità monetaria e non è il primo né sarà l’ultimo movimento al rialzo dei tassi. Ma gli effetti sono pesanti e avvolgono l’intero mercato finanziario.
Rendimenti dei bond su
Come sempre accade, il rendimento dei titoli di stato americani già venduti e quindi scambiati liberamente sul mercato da possessori e possibili acquirenti ha anticipato le mosse della banca centrale americana. E sono corsi al rialzo: all’inizio dell’anno le obbligazioni del governo americano rendevano poco più di un punto e mezzo percentuale, mentre negli ultimi giorni sono arrivate a toccare il 3%. Nel concreto però non è una buona notizia per chi quelle obbligazioni le ha in portafoglio: se il tasso di mercato, che si muove sulla base delle intenzioni della banca centrale, supera gli interessi promessi dal bond attraverso le cedole, il prezzo del titolo non potrà che calare visto che diventa meno appetibile per gli investitori comprare un’obbligazione che rende meno di quanto offrono i nuovi titoli di Stato appena messi in vendita dalla FED.
Ecco perché rendimento e prezzo sono inversamente proporzionali, e perché i primi a fare le spese del movimento in atto è stato chi aveva in portafoglio un titolo di Stato. Americano, come europeo con il Bund tedesco che è tornato in territorio positivo (cioè ad avere un rendimento sopra lo 0%) per la prima volta dal 2019 e il Btp italiano che ha sfondato nuovamente quota 3%.
Tech e crypto giù
Ma gli effetti non si sono fermati affatto al mercato dei titoli di Stato, né a quello delle obbligazioni in senso largo. D’altronde l’obiettivo delle banche centrali è quello di raffreddare l’economia nel suo insieme, per abbattere l’inflazione. Ci sono state, almeno, altre due vittime illustri del rialzo dei tassi di interesse. Il Nasdaq, vale a dire il listino che raggruppa i titoli tecnologici a Wall Street, è calato di oltre il 28% dall’inizio dell’anno. E il motivo è semplice: investire su start-up e società che mirano a ottenere lauti profitti in futuro ma che oggi non ne hanno ancora mai raggiunto nessuno diventa più rischioso se si alzano i tassi di interesse. Il motivo è che la promessa di profitti futuri diventa molto meno allettante se l’inflazione sale all’8,3%, come è negli Stati Uniti: se i prezzi continueranno a crescere, un dollaro tra due o tre anni potrà valere decisamente meno dei soldi necessari oggi per investire e far crescere queste aziende. Ne ha fatto le spese per esempio Uber, il cui amministratore delegato ha promesso di tagliare le spese e le assunzioni per raggiungere finalmente degli utili aziendali.
Allo stesso tempo è crollato anche Bitcoin, quasi in parallelo con il Nasdaq: -37% dall’inizio dell’anno per il re delle criptovalute. Questa volta non c’entrano i timori di regolamentazioni o gli annunci shock alla Elon Musk che ne avevano influenzato l’andamento nel 2021: al centro dei pensieri degli investitori ci sono anche qui i tassi di interesse. Se diventa più costoso prendere a prestito denaro e se ci sono meno soldi in circolazione, gli investimenti rischiosi e che non promettono profitti probabili e rapidi diventano meno appetibili. E così è stato anche per le altre criptovalute e investimenti legati alla blockchain, una tecnologia promettente ma per ora con limitate applicazioni: le stablecoin Terra e Luna, ancorate al dollaro, sono crollate nelle ultime ore. Bitcoin ha sempre avuto l’ambizione di essere una riserva di valore al pari dell’oro: ma in un periodo di elevata incertezza e inflazione, ha invece perso un terzo del suo valore mentre l’oro fisico da inizio dell’anno è rimasto stabile.
Effetto dollaro sui Paesi emergenti
Dall’altra parte della barricata, tra chi cresce c’è invece il dollaro. In parole semplici, quando una banca centrale mette in campo azioni di contenimento dell’inflazione tende a ridurre la quantità di moneta in circolazione (la FED ha già fermato gli acquisti e ha annunciato una riduzione del suo bilancio) e questo porta la valuta a rinvigorirsi. Allo stesso tempo se i tassi di interesse aumentano, dall’estero cresce l’interesse – soprattutto per gli USA, centrali nel mercato finanziario globale – per i nuovi titoli di Stato che possono garantire interessi migliori che in passato. E così il dollaro nei confronti dell’euro è cresciuto del 7,5% da inizio anno, un risultato ragguardevole per una valuta consolidata. Con effetti a cascata su tutto il resto del mondo: se per gli USA è diventato più vantaggioso importare beni, per l’Europa crescono invece i costi per acquistare prodotti dall’estero alimentando l’inflazione. E così è anche per Paesi emergenti, che possono subire il rialzo dei tassi a livello globale e un deprezzamento della propria moneta nei confronti del dollaro, in cui spesso è denominato il proprio debito che sono chiamati a ripagare. Ecco perché Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale hanno alzato il livello di allarme nei loro report periodici sul debito dei Paesi emergenti.
In definitiva, il ritorno alla normalità monetaria per sconfiggere l’inflazione porta con sé alcuni compromessi che avremmo preferito dimenticare.