L’operatività e i piani di investimento delle imprese italiane sono messi a dura prova dallo shock congiunto prezzi-guerra. Dalla fine dello scorso anno, il quadro globale ha difatti iniziato a mostrare chiari segnali di indebolimento a causa della diffusione della variante Omicron e, soprattutto, per l’acuirsi dei rialzi dei prezzi dell’energia e di varie commodities e per le strozzature nelle catene globali di fornitura. Lo scoppio della guerra in Ucraina ha aggiunto estreme tensioni e incertezza. Trascorsi più di due mesi dall’inizio del conflitto, è ancora difficile stabilire quanto ancora potrà durare. I rischi, dunque, sono al ribasso per il ciclo economico mondiale e al rialzo per l'inflazione.
Quale la portata del doppio shock?
Cogliere con tempestività gli impatti diretti di questo doppio shock sul sistema economico assume dunque massima importanza per provare a quantificarne l’ordine di grandezza. Per compiere questo esercizio ricorriamo alle indicazioni fornite da più di 460 imprese associate ad Assolombarda di Milano, Monza Brianza, Lodi e Pavia attraverso il sondaggio rapido condotto da Confindustria tra il 15 e il 24 marzo scorsi. È un insieme numeroso di imprese, prevalentemente del manifatturiero e con una sovra-rappresentazione di quelle esportatrici più esposte agli scenari internazionali (il 75% dei rispondenti, di cui circa la metà con rapporti diretti con Russia-Ucraina-Bielorussia).
La difficoltà conseguente al conflitto più diffusamente sentita dalle imprese è l’ulteriore aumento dei prezzi degli input produttivi, sul cui inasprimento pesa il fatto che Russia e Ucraina sono fornitori rilevanti a livello globale: 9 imprese ogni 10 lamentano come problema ‘importante’ il costo dell’energia, 8 ogni 10 quello delle altre commodities (in primis, l’acciaio) e 5 ogni 10 quello dei semilavorati. In aggiunta al problema di costo che pesa sui margini, la guerra sta amplificando anche le frizioni nella reperibilità di materiali per far fronte agli ordini: oltre il 70% delle imprese indica tensioni nell’approvvigionamento delle materie prime e circa il 50% nella disponibilità dei componenti. Poi, oltre un terzo delle imprese rileva ostacoli all’export e difficoltà nei pagamenti.
Per effetto di questa somma di condizioni, diverse imprese sono già incorse in interruzioni di attività o prevedono di farlo nel breve termine. Quasi 60 realtà a Milano, Lodi, Monza Brianza e Pavia segnalano di aver già ridotto la produzione, la maggiore parte delle quali fino al 20%, ma alcune addirittura fino al 40%. Inoltre, della quota consistente di imprese che per ora non ha ridotto la produzione, solo un terzo è in grado di mantenere l’attività invariata per tempi prolungati, mentre per i due terzi restanti la gestione delle difficoltà ha un limite temporale: il 27% presuppone di poter continuare a produrre senza interruzioni solo nel breve termine, ossia ancora per 1-3 mesi, e un ulteriore 32% non oltre i 12 mesi.
In cerca di alternative
A fianco di questi impatti diretti che dalla dimensione macro si ripercuotono a livello microeconomico, si aprono poi diversi interrogativi sulle interconnessioni e sulle interdipendenze degli scambi commerciali globali, come ha richiamato recentemente anche Christine Lagarde durante gli Spring Meetings 2022 del Fondo Monetario Internazionale.
Sempre dal sondaggio condotto presso le imprese emerge che, come prevedibile, la quasi totalità delle aziende che importavano da Russia-Ucraina-Bielorussia sta cercando mercati alternativi di approvvigionamento per far fronte alle tensioni contingenti (l’85,4% di esse lo sta appunto facendo). Al di là di queste realtà, è però ben il 48,1% delle imprese che si sta riposizionando geograficamente verso nuovi mercati per le proprie forniture. Questo significa che è in atto una importante e sfidante riorganizzazione delle geografie delle catene globali del valore che non si configura esclusivamente come tattica di breve periodo bensì come strategia di più lungo termine, innescata dalle turbative negli scambi mondiali nella ripartenza post pandemica e accelerata dalla guerra.
Interessante è anche notare che chi si sta riposizionando lo sta facendo secondo logiche di maggiore prossimità, in cui l’Europa e l’Italia possono giocare un ruolo rilevante: dopo la Cina che rappresenta il primo mercato di sbocco alternativo per gli approvvigionamenti così come indicato dal 23,1% delle imprese, segue a breve distanza l’Italia (18,9% dei rispondenti), poi la Germania (13,0%), gli Stati Uniti (10,9%) e la Turchia (10,1%).
In aggiunta, le imprese sono attive anche nella ricerca di nuovi mercati di destinazione, con una quota che sfiora il 40% per chi esportava verso Russia-Ucraina-Bielorussia e del 16% per chi vendeva in altre aree del mondo.
Questo ripensamento in atto nella mappa mondiale delle relazioni economiche apre a una riflessione più ampia sulle forme e sulle strategie della globalizzazione e può rappresentare una opportunità per le parti competitive del nostro sistema industriale, se in grado di posizionarsi nelle filiere globali sempre più come partner ad alto valore aggiunto.
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