In uno scenario pandemico vulnerabile e non curante della diversità settoriale, le ricadute geopolitiche sul comparto energetico nazionale e internazionale sono state importanti in termini di approvvigionamento.
È utile e necessaria quindi un’analisi focalizzata sugli scenari di gestione delle materie prime, tanto per la produzione di materiali, apparecchi e infrastrutture richieste dalla transizione energetica, quanto come componenti di rischio dell’energy management, costituendo un potenziale ostacolo all’innovazione tecnologica.
Indotti dalla pandemia a riconsiderare alcune strategie di mitigazione dei rischi, diversificazione e resilienza lungo le catene globali del valore sono diventate parole chiave per policymakers e imprenditori. In questo contesto, che ha finito per esacerbare ulteriormente le frizioni tra Stati Uniti e Cina nella competizione tecnologica, si staglia un nuovo scenario, potenzialmente conflittuale: quello della corsa ai metalli e minerali rari. Un processo dalla governance incerta, che l’impatto dirompente delle nuove tecnologie digitali e il ricorso alle rinnovabili per de-carbonizzare l’economia mondiale renderanno difficilmente eludibile.
Dato il contesto geopolitico in rapido mutamento, cresce infatti la convinzione che difficilmente il libero mercato potrà, da solo, mitigare la contemporanea sovrapposizione di due trend globali, nonché driver di una rinnovata competizione per i critical raw materials (CRMs): la conversione energetica e l’avvento della quarta rivoluzione industriale. Se da un lato parte della letteratura sostiene che questi fenomeni, con la progressiva integrazione dell’AI, l’IoT e il paniere energetico, possano rappresentare le premesse per un nuovo stadio di crescita e sviluppo, dall’altra non sono da escludere effetti distorsivi, dal momento che i due fenomeni rientrano sempre di più in una logica di great-power competitionper la supremazia tecnologica e industriale, le cui basi sono sempre più incastonate nella tavola periodica.
L’era dei metalli rari
Il gruppo dei minerali essenziali per la transizione green-tech è piuttosto numeroso: la Commissione Europea stima che quasi il 60% della domanda mondiale di CRMs sia associata ad industrie ad alto valore aggiunto. Un rapporto della Banca Mondiale del 2017 ha invece rilevato come le tecnologie verdi “abbiano di fatto una componente più intensa di materiali rispetto ai sistemi energetici correnti basati sui combustibili fossili”. Con la prospettiva di limitare l’aumento delle temperature globali di 2°C entro il 2050, l’UN Environment Programme (UNEP) stima che il dispiegamento delle tecnologie rinnovabili richiederà di estrarre più di 600 milioni di tonnellate di metalli rari.
La rilevanza strategica di queste risorse è quantificabile mettendo in relazione l’importanza economica che questi minerali rivestono per la manifattura di prodotti industriali cruciali e il grado di supply chain risk a cui sono esposti. La criticality può cambiare sulla base di innovazioni tecnologiche o di cambiamenti negli scenari geopolitici, causando repentini riequilibri nella domanda-offerta. Inoltre, molti di essi presentano rischi ambientali e sociali elevati, poiché associati spesso a pratiche estrattive non sostenibili.
Garantire supply chains trasparenti, stabili e universalmente accessibili sarà un esercizio complesso, soprattutto in un contesto globale altamente competitivo. Secondo l’OCSE soltanto nel 2017 i governi hanno imposto 3.795 restrizioni all’export di materie prime. Inoltre, l’esistenza di ostacoli geografici, geologici e tecnici non potranno che avere implicazioni geoeconomiche, dal momento che andranno a inasprire asimmetrie rilevanti, dal lato dell’offerta e della domanda, e una storica volatilità nei prezzi.
La ricerca di indipendenza (o “sovranità mineraria”) e la competizione per diversificare le forniture di cobalto, litio e terre rare diventeranno il Leitmotiv man mano che il paniere energetico globale vedrà aumentare la quota delle rinnovabili, aumentando di converso la domanda dal lato industriale per le componenti più cruciali (batterie e magneti).
FONTE: J. Wilson, “Strategies for Securing Critical Material Value Chains”, Perth USAsia Centre, Maggio 2020.
Il ruolo della Cina
La Cina gioca un ruolo di primo piano. Nel caso di cobalto e litio, Pechino ha intessuto una fitta rete di acquisizioni e investimenti strategici tramite l’impiego di State-owned enterprises (SOEs) e società private in Paesi ricchi di risorse e ad alto rischio; infine, la Cina ha concretizzato il monito di Deng Xiaoping - “Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina le terre rare” - grazie a una politica industriale decennale che ha mirato a integrare l’intera catena del valore, esercitando ora un monopolio che rischia di diventare un arma negoziale e geopolitica.
Cobalto
L’80% della domanda mondiale di cobalto – destinata a raggiungere le 90.000 tonnellate entro il 2030 - viene dall’industria delle batterie elettriche. I tre giacimenti più importanti (come riserve conosciute) sono situati rispettivamente nella Repubblica Democratica del Congo, in Australia e Cuba, con il 69% dell’attuale produzione mondiale nello Stato africano (90.000 t). La Cina controlla più dell’80% della processazione globale e attualmente produce poco più di 3.000 tonnellate.
Esemplificativo è l’incontro avvenuto nel giugno del 2018 a Lubumbashi, con rappresentanti di 35 compagnie cinesi ed esponenti del governo africano per annunciare la creazione della Union of Mining Companies with Chinese Capital. Pechino gestisce più della metà della produzione nel Paese con partecipazioni azionarie di alcune delle sue aziende di punta (come China Molybdenum) in 8 delle 14 miniere del Paese. La poca attenzione delle società cinesi a questioni umanitarie, sociali e ambientali e la tolleranza di Pechino rispetto a un’area fortemente instabile rappresentano vantaggi competitivi difficilmente replicabili dalle compagnie occidentali. In futuro anche la tecnologia 5G entrerà in competizione sulla domanda di cobalto complessiva, con l’industria elettronica che ne consumerà più di 73.000 tonnellate entro il 2025.
Litio
La domanda globale di litio è stimata quadruplicare entro il 2035. La Banca Mondiale nel 2017 ha previsto che possa addirittura aumentare del 1000% al 2050. Molte delle riserve conosciute sono concentrate nel cosiddetto “triangolo latino”: Cile, Argentina e Bolivia. Tuttavia, quasi il 90% della produzione corrente avviene in Cile, Argentina e Australia, tre Paesi in cui la Cina detiene un controllo[1] sostanziale sulla proprietà dei siti e sugli stadi di processazionecon possibili ripercussioni sulla stabilità dei prezzi del litio e dunque sui costi delle batterie elettriche. Avendo consolidato il controllo manifatturiero dal 50% (2013) al 60% (2019), il vantaggio di Pechino sugli Stati Uniti[2] è abissale. Trainata dall’industria automotive tedesca, la risposta dell’Unione Europea non si è fatta attendere, con il lancio della Battery Alliance per costruire 26 gigafactories sul continente e promuovere R&D sulle prossime generazioni di batterie elettriche.
Terre rare
Un gruppo di 17 elementi della serie dei “lantanidi” è destinato a giocare un ruolo cruciale nella transizione energetica e digitale, foriero nell’ultimo anno di una rinnovata attenzione nei circoli governativi e industriali con il crescere delle tensioni commerciali e tecnologiche tra Washington e Pechino. Infatti, la convergenza di diversi fattori – geologici, produttivi e di know-how scientifico – fa della Cina il “single-point failure in the global supply chain”.
Secondo le stime dell’USGS, la Cina detiene circa il 40% delle riserve mondiali (di gran lunga il paese più ricco), produce oltre il 60% degli ossidi (REO) e conta l’85% delle capacità di raffinazione. USA e UE sono interamente dipendenti da Pechino per la loro domanda interna[3]. In generale si stima che, mentre il valore di interscambio delle terre rare raggiungeva appena i 9 miliardi di dollari nel 2015, l’indotto industriale valeva circa 7 trilioni di dollari.
Implicazioni rilevanti e globalizzate
Questi elementi detengono il più alto supply risk per la Commissione europea che ha da poco lanciato l’European Raw Materials Alliance. Una rilevanza strategica che ha indotto anche Donald Trump a firmare un executive orderdichiarando, di fatto, l’emergenza nazionale per accelerare il reshoring della produzione ed evitare il rischio di una possibile “weaponization” delle terre rare se i rapporti con Pechino dovessero deteriorarsi ulteriormente. Se da un lato può raffigurarsi come causa prioritaria in termini energetici e militari - maggiormente per il dibattito interno alla NATO - il crescente appetito tecnologico di Pechino con il piano Made in China 2025 potrà essere tra le principali cause di eventuali restrizioni all’export[4], oltre alla capacità cinese di imporre quote di produzione per sostenere il vantaggio competitivo delle sue industrie.
L’apertura, o meno, di nuovi siti e di impianti di processazione svincolati dalle supply chains controllate da Pechino rimarrà vincolata alle forti oscillazioni dei prezzi degli REO, alla concentrazione nei giacimenti delle HREEs (Heavy Rare-Earth Elements), che rappresentano le componenti più preziose, e alla capacità di investimenti ingenti e a lungo termine, dal momento che si tratta di un settore ad alta intensità di capitale e dai rischi sociali, politici, finanziari e ambientali molto elevati.
[1] rispettivamente con il 67%, il 41% e il 61% dell’output.
[2] che secondo lo USGS detengono l’8,5% delle riserve mondiali, la Cina il 40%.
[3] Grazie alle loro proprietà chimico-fisiche, le terre rare sono elementi cruciali nei motori elettrici una volta processate e convertite in magneti, nelle tecnologie militari e nelle turbine eoliche. Oltre il 90% delle auto elettriche ed ibride sul mercato utilizzano i magneti permanenti nei loro motori.
[4] come testimoniato già dal calo del 43% a settembre 2020