Le tensioni che stanno scuotendo il Sud America vanno ben oltre le singole questioni all’origine delle proteste: esprimono la necessità di un radicale cambiamento economico e sociale.
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Se la rivoluzione sociale rimane un progetto alternativo teso al capovolgimento dell’ordine esistente, le pur radicate e consistenti manifestazioni di protesta che come mai prima in questo millennio hanno scosso per molte settimane e ancora turbano il subcontinente americano sembrano evocarla senza tuttavia proporsela. In questa logica, apparentemente paradossale, la loro attuale forza politica risiede in non trascurabile misura nella scarsità di preoccupazioni ideologiche. Nelle rivendicazioni che portano in piazza milioni di persone, dai Caraibi meticci giù lungo le Ande antropologicamente più autoctone fino alla Patagonia, prevale una nuova coscienza dei diritti che però è tanto ferma nei principi quanto assai poco s’interroga sulla loro concreta praticabilità.
Le attende dunque una non facile evoluzione, destinata di volta in volta ad accentuarne caratteristiche diverse e talvolta opposte. Con i perché, filtrati alla prova del come, a insidiarne compattezza e perseveranza. Ne sono protagonisti soprattutto donne e uomini di una classe media urbana estesa dalle professioni e dai commerci al lavoro dipendente qualificato, con gli studenti come punta di lancia e quindi un’età media tendenzialmente giovane. Sebbene non manchino i pensionati. L’escursione socio-economica è pronunciata. Il livello culturale notevolmente buono. Con una trasversalità di posizioni politiche che scavalca le frontiere di partito, tenuta insieme da un forte istinto liberal-democratico e sostanziali ancorché generali (e generici) principi di uguaglianza.
Taluni sociologi vi intravvedono da qualche tempo spontanei movimenti di ri-aggruppamento di classe, che di fronte alle trasformazioni dei sistemi di produzione e dei mercati di consumo i partiti tradizionali non sono riusciti a compiere (e le nuove formazioni neppure). Un fenomeno tutt’altro che esclusivamente latinoamericano, ma che tra il Rio Grande del Norte e la Tierra del Fuego si presenta con speciale virulenza a causa delle coincidenze che in determinati periodi—e nuovamente all’avvio del 2020—sommano forti dinamismi economici complessivi (coincidenti con l’inizio e la fine dei cicli) a gravissime e persistenti disuguaglianze. L’indice Gini (ideato dall’economista italiano Corrado Gini e comunemente usato per misurare il grado d’iniquità nella distribuzione della ricchezza prodotta) la indica come la regione più ingiusta dell’universo occidentale.
Sono tensioni che fanno tremare le istituzioni come un sisma la terra (e il Sudamerica è terra di ardenti vulcani). Un tempo non tanto lontano (e che tutti ricordiamo) avrebbero provocato un golpe dietro l’altro. Oggi anche i militari e gli interessi economici interni e internazionali che storicamente se ne servono, devono cercare un travestimento che almeno formalmente nasconda la loro incompatibilità con l’ordine costituzionale. Il deterioramento complessivo intervenuto nella qualità democratica del subcontinente può essere così misurato attraverso il crescente numero di alti ufficiali che vi occupano presidenze e ministeri. Sebbene non manchino varianti come quella recentissima della Bolivia, dove sono invece rimasti in caserma mandando le loro autoblindo ad accompagnare una gentile signora non eletta da nessuno a sostituire il presidente Evo Morales, costretto precedentemente alla fuga (è il classico caso in cui la toppa è peggiore del buco…).
In Venezuela sono le arbitrarie acrobazie giuridico-legislative di Nicolas Maduro ad aver cooptato a pieno titolo le forze armate al potere, mentre nella consapevolezza che i carri armati non votano ma pesano (eccome!) le opposizioni rivolgono loro non meno benevole e rassicuranti lusinghe. In Brasile il vicepresidente, generale Hamilton Mourao, un duro, è apparso nondimeno in più di un’occasione un elemento di moderazione nei confronti del capo dello stato, l’ex capitano Jair Bolsonaro, e dei suoi figli, inclini tutti a eccessi di disinvoltura amministrativa oltre che politica. Evidente l’influenza delle gerarchie militari sui governi conservatori di Colombia, Ecuador e Perù, dove la violenza istituzionale è quotidiana. Nel Cile costituiscono perfino ufficialmente, a tutti gli effetti, la scintilla stessa che ha fatto esplodere la mezza insurrezione d’ottobre, per fermare la quale il presidente di destra Sebastian Piñera ha accettato di cancellarne i privilegi imposti da Pinochet sostituendo la Costituzione.
Ma le sfide forse più paradigmatiche sono quelle che affrontano due governi populisti di centro-sinistra, agli estremi opposti della geografia latinoamericana: Andrés Manuel Lopez Obrador (AMLO) nel Messico flagellato dal narcotraffico, dalla corruzione e dalla recessione; e sul Rio de la Plata il peronista moderato Alberto Fernandez, chiamato a salvare l’Argentina dal naufragio in un nuovo default. Entrambi sono stati eletti da forti maggioranze popolari in reazione alle clamorose bancarotte delle precedenti esperienze neoliberiste. Entrambi rappresentano l’ultima occasione per le rispettive democrazie. Se dovessero fallire, nessuno esclude il rischio di un loro collasso istituzionale e, poiché appresentano due delle tre maggiori economie dell’area (la terza – prima in ordine di grandezza – è il Brasile), difficilmente potrebbero evitare di coinvolgerla interamente in un dissesto generale (parliamo di un mercato di quasi 800mila cittadini-produttori-consumatori).
L’accordo commerciale raggiunto dopo estenuanti trattative con Stati Uniti e Canada è l’importante, forse vitale ma anche l’unico dato positivo che può far ben sperare il Messico. AMLO ne ha tratto un sospiro di sollievo. Per l’Argentina l’àncora immediata di salvezza può venire invece dall’export agricolo, che quest’anno si annuncia particolarmente favorevole per l’abbondanza dei raccolti se non per il livello dei prezzi internazionali. Le tensioni determinate sui mercati dalla guerra dei dazi dichiarata dagli Stati Uniti al mondo intero, dalla Cina alla Russia, all’Unione Europea, all’America Latina, deprimono però il volume degli scambi e sebbene tanto Washington quanto Pechino abbiano finora evitato di portare alle estreme conseguenze le ritorsioni reciproche, la tendenza di fondo resta esposta a uno stress permanente. Con Donald Trump minacciato d’impeachment nell’anno elettorale e Wall Street ad alto rischio per le bolle immobiliare e dell’hight-tech (AI, 5G) gonfiate al massimo dalla speculazione.