Se la notizia fosse confermata, ma col trascorrere delle ore pare sempre meno plausibile, uno degli attentatori dell’attacco compiuto ieri con un camion a Berlino sarebbe un pakistano che aveva fatto richiesta di asilo in Germania. Il diffondersi di questa iniziale notizia ha fatto sì che l’attenzione di parte dell’opinione pubblica si concentrasse nuovamente sulla possibile correlazione esistente tra politiche di asilo europee e rischio terrorismo.
Secondo tale lettura, l’accoglienza europea nei confronti dei richiedenti asilo sarebbe tra le cause dell’ondata di terrorismo che sta colpendo il Vecchio Continente, in quanto le ‘maglie troppo larghe’ favorirebbero l’infiltrazione di elementi volti a commettere attentati nei territori europei. Nel caso specifico di Berlino, il fatto che il supposto attentatore fosse pakistano, ha inoltre portato parte dell’opinione pubblica e dell’establishment anti-europeista e populista (dal leader del fronte del Brexit Nigel Farage a Matteo Salvini in Italia) a mettere in dubbio la stessa accoglienza nei confronti di coloro che vengono dal Pakistan, in quanto in quel Paese non vi sarebbe un conflitto tale da riconoscere ai suoi abitanti lo status di rifugiati politici.
Al di là delle speculazioni, è evidente che i recenti e limitati casi di richiedenti asilo o rifugiati che divengono terroristi sia da ricondurre a quel processo di radicalizzazione che, da anni a questa parte, interessa centinaia di giovani (di origine straniera e non, si pensi soltanto al caso dell’italiana Maria Giulia Sergio, alias Fatima, condannata proprio ieri dalla Corte d’Assise di Milano a 9 anni di reclusione per terrorismo) in Europa, sotto l’influenza della propaganda jihadista dello Stato Islamico (IS). Come ribadito da tutti gli esperti e gli studiosi di tali questioni, la radicalizzazione non è caratterizzata da fattori comuni, ma ogni caso va analizzato singolarmente e ha come causa elementi diversi. In tale quadro, l’unico comune denominatore è, chiaramente, l’adesione all’ideologia anti-sistemica e nichilista del jihadismo marcato IS.
Se, invece, la questione viene spostata sul livello dell’equazione rifugiati-terrorismo, i fatti continuano a non dare evidenze di tale correlazione, sebbene chiaramente ciò non vuol dire che sia da escludere a priori che tra le centinaia di migliaia di rifugiati in Europa possa esservi anche qualche elemento che mira a compiere attentati. Così come ciò non esclude che, una volta giunti in Europa, alcuni rifugiati corrano il rischio di intraprendere un processo di radicalizzazione che può condurli, nei casi più estremi, a compiere attentati come quello di ieri a Berlino. Di fronte a tale questione, suonano però piuttosto fuori luogo gli slogan di coloro che rivendicano una politica più chiusa nei confronti dei richiedenti asilo, soprattutto se si tratta di Paesi come il Pakistan, apparentemente non interessati da conflitti.
Qui entra in gioco la comprensione profonda degli scenari geopolitici da cui provengono i richiedenti asilo in Europa. In particolare, il Pakistan può davvero definirsi un Paese privo delle condizioni necessarie per cui un rifugiato possa richiedere asilo politico? Il Pakistan è un Paese devastato da conflitti interni ed esterni da decenni. Gli spill-over della guerra in Afghanistan, l’infiltrazione di al-Qaida e dei Talebani, le operazioni dei servizi segreti deviati e non, attentati e uccisioni di leader politici, contraddistinguono il Pakistan almeno da trent’anni.
Alcuni dati possono aiutare ad analizzare meglio il contesto:
- Il Pakistan è il quinto Paese dopo Siria, Afghanistan, Iraq e Nigeria, di provenienza dei richiedenti asilo in Europa. Circa 15.000 persone hanno fatto richiesta di asilo solo nel terzo quarto del 2016. E’ difficile immaginare che siano tutti potenziali terroristi, così come che siano tutte persone mosse solo dal desiderio di auto-realizzarsi in un altro contesto e non in fuga da una situazione conflittuale.
- Del resto, non si può dire con leggerezza che il Pakistan non viva una situazione di conflitto: secondo i dati del Global Terrorism Index, il Pakistan è il quarto Paese al mondo che più soffre per terrorismo. Solo nel 2015, in Pakistan si sono registrati 1.008 attentati, che hanno ucciso 1.086 persone (una media di circa 3 morti al giorno per terrorismo).
- All’instabilità e al terrorismo, si aggiungono le stesse azioni occidentali: tra il 2004 e il 2016, gli Stati Uniti hanno compiuto almeno 424 attacchi documentati con droni in Pakistan. Questi attacchi hanno ucciso tra le 2.500 e le 4.000 persone, di cui un migliaio di civili e circa 200 bambini.
- Se poi andiamo ad analizzare i dati sui rifugiati nel mondo, scopriamo che il Pakistan è soprattutto un Paese d’ingresso di rifugiati (soprattutto dall’Afghanistan) e non di uscita. Dopo la Turchia, infatti, è il primo Paese al mondo per numero di rifugiati ospitati nel proprio territorio, circa 1,6 milioni.
Di fronte ad attentati come quello di Berlino, la risposta non va ricercata nelle ‘sbagliate’ politiche di asilo europee, né episodi come questo possono essere utilizzati in maniera strumentale per attaccare i leader politici europei per la politica di accoglienza messa in campo. Non possiamo neanche far finta di non comprendere che uno degli scopi del terrorismo è proprio quello di alimentare le divisioni interne alle società colpite.
In questo senso, l’attacco contro Angela Merkel e contro gli attuali leader europei da parte delle forze populiste, rischia di fare esattamente il gioco dei terroristi, provocando fratture interne all’Europa e, in ultima istanza, indebolendola. L’analisi delle cause del terrorismo, invece, va ben oltre la critica al sistema (per altro ancora molto limitato) di asilo europeo e riguarda, come sempre, non solo l’Europa ma anche le aree dalle quali nasce l’ondata di estremismo cui stiamo assistendo. Risolvere le grandi crisi che coinvolgono l’arco del Medio Oriente allargato vorrebbe dire togliere terreno sotto i piedi al terrorismo.
Al contrario, finché quell’area continuerà ad essere destabilizzata, sarà difficile non continuare ad assistere a episodi come quelli di Berlino. Se l’Europa ha una colpa, dunque, non è quella di ‘preoccuparsi troppo’ delle persone che fuggono da quel contesto, ma al contrario di occuparsene troppo poco, o in maniera ben poco efficace.
Stefano Torelli, ISPI Research Fellow